Chiara Giorgi: educazione al cinema per l’integrazione di bambini con handicap
Qui di seguito vorrei presentarvi un bellissimo progetto realizzato da Chiara Giorgi.
Chiara Giorgi é nata a Bologna il 2/4/1977 ed é laureata in Scienze dell´Educazione e Scienze della Formazione Primaria. Dal 2003 al 2009 ha lavorato come educatrice per la Coop Dolce e ha realizzato progetti di integrazione dei bambini disabili attraverso il cinema. Uno dei film realizzati “Il re dell´occhio” ha vinto nel 2006 il premio Luca de Nigris, indetto dalla Cineteca di Bologna. Nel 2009 ha pubblicato un romanzo noir per la casa editrice Giraldi, dal titolo “L´uomo nero”. Dal 2011 vive a Berlino, dove lavora come educatrice per un asilo-scuola materna italo-tedesco, nel quale continua a realizzare progetti video, per avvicinare anche i piú piccoli al linguaggio cinematografico.
ProMosaik pubblica questo progetto per sottolineare l’importanza dell’integrazione dei bambini con handicap nella scuola. I bambini portatori di handicap non devono essere discriminati, ma accolti con i loro problemi e con le loro risorse preziose.
Il progetto è nato con l’idea di fare un lavoro che coinvolgesse un bambino autistico con la sua classe.
Si è pensato l’utilizzo del metodo espressivo del cinema muto in modo che il bambino avesse le stesse competenze e possibilità dei compagni: il lavoro è durato dalla terza elementare fino alla seconda media e ogni film è collegato in una parte della trama proprio per sottolineare la continuità dell’intero progetto.
Nel primo film il bambino era il protagonista della storia, mentre nei film successivi è diventato uno dei personaggi della storia proprio perché l’idea di fondo era quella di fare un lavoro “totalmente” alla pari con gli altri compagni senza puntare il riflettore sulla diversità del bambino ma sulle proprie capacità espressive in mezzo agli altri ragazzi.
Nel corso degli anni è stata coinvolta tutta la scuola alla realizzazione del progetto: i bambini delle altre classi hanno partecipato come comparse, hanno contribuito a realizzare scene e costumi.
I temi affrontati sono stati i seguenti:
1- “Il Fantasma di Lord Albert” Viene affrontato il tema della diversità, in questa prima storia il bambino inizialmente invisibile poiché un “fantasma” viene gradualmente accettato e non più temuto dai compagni.
2- “Il Re dell’Occhio” Il Video è ambientato in un manicomio all’interno del quale avvengono strani delitti: il tema affrontato è quello della pazzia. In questo episodio il bambino insieme ai compagni ricoverati scoprirà il misterioso omicida del manicomio.
3- “La Mosca Bianca”. In una società del futuro un popolo invasore sottomette un paese che vive in pace dividendolo per classi e livelli sociali differenti. Il tema affrontato è quello della dittatura e della ribellione ad essa, la mosca bianca non è altro che una macchina difettosa di questa dittatura che consentirà la vittoria del popolo oppresso.
4- “Il Cancello di Pietra” Il tema principale è quello del “passaggio”. E’ il primo film realizzato alle scuole medie e ha coinvolto vecchi e nuovi compagni di classe del bambino. Nella nuova scuola misteriosa dove gli adulti indossano maschere il nuovo gruppo di ragazzi inizialmente spaventato dovrà crescere e lottare assieme per trovare una nuova identità.
5- “La Scatola Nera” In questo ultimo film si parla di un mondo illusorio dove il controllo viene esercitato tramite false illusioni. Si potrebbe definire una “Dittatura Moderna” ma grazie al recupero di ricordi passati i protagonisti smaschereranno il mondo fittizio nel quale sono prigionieri e insieme vivranno una nova vita più difficile più dura ma “vera” e “libera”.
Questa particolare esperienza ha aiutato gradualmente l’avvicinamento tra il bambino e i compagni sviluppando nel corso degli anni progressi espressivi e comunicativi, nuove idee, nuovi metodi di cooperazione inizialmente impensabili.
Ecco il rapporto completo sul progetto:
FILM A SCUOLA
di Chiara Giorgi e Matteo Pieri
Introduzione
L’esperienza che verrà descritta in queste pagine è il risultato di un lavoro di integrazione di un bambino in situazione di handicap nel contesto classe. Questo lavoro si è sviluppato nel corso di sei anni, a partire dalla classe terza elementare per concludersi alla fine della terza media. Il progetto è nato dall’interesse del bambino verso il mezzo cinematografico. Il cinema, quindi, è stato utilizzato come strumento di mediazione nei rapporti fra i bambini e gli adulti. Essendo una prima esperienza per tutte le persone coinvolte, il bambino si è trovato ad avere le stesse capacità dei coetanei e ciò gli ha permesso di vivere questa esperienza alla pari, come si vedrà in seguito con la testimonianza dei metodi di realizzazione, sviluppando anche le proprie abilità comunicative, espressive e motorie.
La riuscita di questo lavoro è stata possibile poiché abbiamo avuto modo di seguire, in qualità di educatori, i bambini e i ragazzi per tutto il ciclo scolastico. La continuità educativa è fondamentale per creare un clima di fiducia, di empatia, affettività e adesione a una qualsiasi attività. All’interno della classe noi educatori avevamo ruoli diversi: uno come educatrice professionale con uno specifico orario di sostegno, l’altro come mediatore interculturale all’interno della scuola e della classe. Perché vi sia un buon progetto di integrazione, occorre che la struttura scolastica e le persone che vi agiscono, siano mosse dalle stesse intenzioni e che condividano gli stessi obiettivi educativi e didattici. Un buon accordo dell’equipe socio-sanitaria, della scuola e della famiglia, favorisce, infatti, lo sviluppo del bambino e il suo inserimento nella realtà scolastica e sociale. In più, i compagni di classe di un alunno in situazione di handicap devono essere a conoscenza del progetto di integrazione ed essere motivati a parteciparvi in modo spontaneo ed originale.
Capitolo 1
1- Presentazione e descrizione del progetto “Film a scuola”
Il progetto “Film a scuola” si caratterizza come attività a carattere interdisciplinare poiché coinvolge varie materie: italiano, educazione all’immagine, informatica, matematica, storia, educazione tecnica. Il film rappresenta il momento finale di un’insieme di attività che coinvolgono i bambini nella scrittura della sceneggiatura, nel girare le riprese con la videocamera digitale, nel disegnare le scenografie e nel montare alcune scene con un apposito programma di montaggio, con la guida attenta da parte degli adulti. Si tratta di un lavoro lungo e molto impegnativo che occupa tutto l’anno scolastico, a partire da ottobre fino a giugno, con la chiusura della scuola.
L’idea di questo progetto è nata sei anni fa, per permettere al bambino che seguiamo, Andrea, di partecipare ad un’attività creativa con i suoi compagni di classe. Andrea è appassionato di cinema, per questo motivo abbiamo scelto di utilizzare questo tipo di linguaggio come strumento per la sua integrazione nella classe. Per favorire la partecipazione di Andrea al film, abbiamo deciso di realizzare tutti i film che sono stati prodotti in questo lasso di tempo, seguendo le modalità del cinema muto e del videoclip, infatti le scene vengono montate seguendo il ritmo delle musiche selezionate. Senza l’ausilio del sonoro, i bambini sono stimolati ad utilizzare di più il linguaggio corporeo quale modalità espressiva; ciò facilita il lavoro di Andrea che è certificato come bambino con ritardo mentale medio e tratti autistici con problemi sul versante comunicativo verbale. La scelta del muto è dovuta anche a difficoltà di carattere tecnico, perché è impossibile trovare, a scuola, degli spazi e dei mezzi idonei alla registrazione del sonoro.
Per quanto riguarda gli spazi, bisogna precisare che vengono utilizzati tutti gli spazi interni ed esterni alla scuola, come i laboratori, le palestre, la biblioteca, il parco, il cortile, la piscina, con la sola esclusione delle altre classi. Le scuole in cui abbiamo lavorato sono: la scuola elementare “Mario Longhena”, situata in via di Casaglia in prossimità del parco naturale San Pellegrino e la scuola media “Guinizelli”, in via Cà Selvatica a Bologna. La posizione favorevole degli spazi scolastici lontani dalla città e immersi nel verde, nella scuola elementare, hanno facilitato la realizzazione del nostro lavoro; mentre alla scuola media, situata nel centro di Bologna, abbiamo avuto più difficoltà a muoverci, a causa delle regole più rigide dell’Istituto e dello spazio più ristretto, anche se abbiamo cercato di lavorare all’interno di esso in modo libero e originale. Il muoversi attraverso tutti questi luoghi ha permesso ai bambini e ai ragazzi delle altre classi di vedere il lavoro nel suo svolgersi e, come si dirà più avanti, in alcuni casi, di parteciparvi direttamente. Ciò ha allargato i confini del progetto a tutta la scuola, permettendo ad Andrea di fare nuove amicizie e di sperimentarsi in una realtà meno protetta, quale risulta essere quella della classe, in cui il ragazzo si trova completamente a suo agio. Lavorare per progetti permette di essere flessibili e di proporre attività in base alle problematiche che emergono nel corso del lavoro. Bisogna precisare che per Andrea è molto importante intergire con altri adulti che ricoprono un ruolo diverso, come lo è rapportarsi ad altri bambini e ragazzi che non siano i suoi compagni di classe e vedere che l’educatore che di solito si occupa di lui in modo “esclusivo” si occupi anche dei suoi compagni con le stesse modalità che utilizza con lui.
Negli anni passati, i film che sono stati realizzati sono stati: “Il Fantasma di Lord Albert”, una specie di fiaba gotica ispirata a “Il Fantasma di Canterville”, nella quale Andrea aveva il ruolo di protagonista; e “Il Re dell’Occhio” un film giallo ambientato in un ospedale psichiatrico, nel quale Andrea aveva sì un ruolo chiave, ma non era l’unico protagonista. Quest’ultimo film ha partecipato al concorso “Luca De Nigris”, indetto dalla Cineteca di Bologna e ha vinto il primo premio. Il momento della premiazione è stato per tutto il gruppo coinvolto nel lavoro un momento importante di riconoscimento e realizzazione personali e collettive, Andrea in questo modo è entrato seppur per breve tempo in contatto con ragazzi, insegnanti e genitori di scuole diverse.
Tornando al progetto, crediamo che sia importante, per Andrea, capire di poter fare le cose esattamente come gli altri e il fatto di non essere sempre al centro della scena può favorire questa comprensione, poiché gli vengono date le stesse possibilità di espressione e di partecipazione e, sulla base di queste possibilità, Andrea può impegnarsi al massimo per arricchire l’attività di elementi originali e personali.
Per l’ultimo anno scolastico delle elementari, avevamo scelto di girare un film western, successivamente, però, abbiamo pensato di arricchirlo con un discorso sulla dittatura, sui rapporti di potere e le reazioni ad esso. La scelta di questo tema e, come si vedrà più avanti, l’intreccio della storia potranno apparire difficili per dei bambini di quinta, ma bisogna precisare che questo progetto si innesta su basi molto solide di competenza cinematografica posseduta da tutti i bambini, Andrea compreso.
Alla scuola media sono stati realizzati, “Il Cancello di Pietra”, una storia fantasy-noir, attraverso la quale abbiamo affrontato il tema dell’ingresso dei ragazzi nella nuova scuola e “La Scatola Nera”, ispirato alle persecuzioni ebraiche durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quest’anno Andrea frequenta la terza media e, in vista del suo esame, abbiamo pensato di ripercorrere la sua storia passata e documentata dai nostri film.
Gli obiettivi educativo-didattici sono stati discussi e approvati dalle insegnanti di classe e dai bambini e dai ragazzi che sono stati coinvolti in questo processo dall’inizio, ciò ha sviluppato in loro una motivazione profonda alla riuscita del progetto.
3- Il primo film: “Il Fantasma di Lord Albert”, classe 3 C scuola Longhena, anno 2004-2005.
L’idea del film “Il fantasma di Lord Albert” mi è venuta dopo circa un anno che lavoravo alla scuola Longhena, come educatrice di Alberto, il bambino che ho sommariamente descritto nelle pagine precedenti. Alberto utilizzava i film per rifugiarsi in un mondo inaccessibile nel quale si esprimeva attraverso un linguaggio stereotipato in cui ripeteva frasi tratte da spezzoni dai suoi film o cartoni preferiti. Questo modo di parlare risultava poco comprensibile per la maggior parte delle persone, ma i suoi compagni, che condividevano i suoi interessi televisivi e cinematografici, riuscivano a capire, il più delle volte le frasi da lui pronunciate. Dopo qualche mese, anche io ero riuscita a interpretare il suo linguaggio e mi ero servita dei suoi personaggi preferiti per instaurare una comunicazione con lui attraverso il gioco e l’imitazione dei suoi soliloqui. Alberto sembrava reagire bene e rispondeva ai miei tentativi, però rimanevano molte difficoltà: Alberto non condivideva lo sguardo, non si guardava intorno e ti osservava lateralmente, mai dritto in faccia, era sfuggente, non sopportava la confusione e dovevamo passare la maggior parte del tempo fuori dalla classe. All’inizio portavo Alberto dappertutto: in biblioteca, nell’aula di musica, nel laboratorio del legno, in palestra, nell’aula di sostegno, all’aperto a passeggiare nel parco. Ma in classe, lui stava in piedi attaccato alla libreria a sfogliare libri in modo frenetico o scappava sotto ai banchi, nonostante i nostri tentativi di farlo sedere al suo posto. Durante l’intervallo e anche durante alcune ore di lezione, però, dividevamo la classe in piccoli gruppi che si alternavano per giocare con lui nell’aula di sostegno, dove avevamo materassi per la psicomotricità e altri giochi. Alberto si divertiva molto e giocava volentieri ai giochi di ruolo e simbolici; era rilassato e mostrava molta voglia di comunicare con i compagni che interpretavano in modo corretto il suo linguaggio, fatto soprattutto di gesti così enfatici da ricordarmi alcuni famosi attori del cinema muto. Fu proprio dopo aver visto un film di Jacques Tati, “Playtime”, che racconta le disavventure di un uomo alle prese con la modernità, e osservando e partecipando ai giochi dei bambini con Alberto, che ho pensato alla possibilità di fare un film muto. Inoltre, nella scuola erano già stati fatti lavori di questo tipo da un maestro di un’altra classe, Fabio Campo.
Da bambina avevo letto “Il Fantasma di Canterville” di Oscar Wilde e mi aveva molto divertito, tanto che dopo avevo scritto la storia di un fantasma un po’ matto che poi avevo interrotto a metà. Non ricordavo più quella storia, ma, visto che oramai eravamo a metà anno scolastico e non sarei riuscita a far scrivere ai bambini una sceneggiatura, poiché le maestre avevano già deciso una programmazione, decisi di scrivere io una storia, basata su un fantasma, Alberto, che aveva il compito di spaventare gli alunni di una scuola, sua precedente abitazione. Quell’anno c’erano state anche due nuove aggiunte alla classe: una bambina di Vicenza, Ileana e un bambino etiope, Eyob. Entrambi avevano qualche difficoltà di integrazione nel gruppo, essendo arrivati da poco. Parlai con le maestre e furono entusiaste della mia idea e mi dissero di rivolgermi a Fabio Campo per avere un aiuto più tecnico per realizzare il progetto, perché loro non ne avevano mai fatto uno simile prima. Il maestro si rese disponibile ad aiutarmi, mettendo a mia disposizione il materiale, videocamera digitale e programma di montaggio, ma non avrebbe potuto dare il suo contributo alla realizzazione del progetto, perché ne aveva già iniziato uno simile con la sua classe. Pensai a chi avrei potuto rivolgermi e, un giorno, incontrai un educatore che avevo già visto tante volte a scuola, ma che non avevo ancora avuto occasione di conoscere. Era un ragazzo più o meno della mia età e mi era sembrato il tipo giusto a cui chiedere una mano, perché mi sembrava molto gentile e amato dai bambini della scuola. Il mio intuito mi guidò bene, perché, appena gli parlai del mio progetto, lui si mostrò subito entusiasta e pieno di nuove idee. Matteo Pieri, volle una copia della sceneggiatura e, già il giorno dopo averla letta, mi propose delle modifiche e delle integrazioni molto buone. Inoltre, Matteo, conosceva benissimo Alberto e la sua classe perché per un anno vi aveva lavorato come obiettore di coscienza, facendo il servizio civile, quindi mi diede dei consigli su come coinvolgere al meglio il resto della classe, dato che conosceva bene tutti i bambini. Visti gli impegni del calendario scolastico e, dopo aver parlato con le maestre, decidemmo di proporre il film ai bambini, leggendo loro la sceneggiatura e stabilendo che lo avremmo girato sia durante le ore di lezione, sia durante le ore di ricreazione del pomeriggio, con i gruppi di gioco per Alberto. Ai bambini piacque molto la storia ed ebbero molte idee che noi aggiungemmo alla sceneggiatura. Con Matteo, decidemmo di lavorare sulla pantomima e sull’improvvisazione, per quanto riguardava la messa in scena; questo perché ci sembrava più stimolante far recitare i bambini in modo spontaneo e immediato, poiché essi dimostravano nei loro giochi di avere molta fantasia e grandi capacità creative ed espressive. Così, ogni bambino ebbe una parte decisa da lui, a parte Ileana, che Alberto volle come “fidanzata” nel film. La trama, infatti, aveva un elemento romantico: il fantasma Lord Albert si innamorava perdutamente di una bambina a cui decideva di mostrarsi e con cui passava il tempo a giocare; la bambina veniva considerata matta dagli altri compagni per la sua amicizia con un fantasma e isolata da tutti; per amore, il fantasma rinunciava ai suoi cattivi propositi e decideva, alla fine, di mostrarsi anche agli altri.
Il mio collega ed io, utilizzammo il bianco e nero e la tecnica del film muto unita a quella del videoclip per il montaggio finale. Ogni scena veniva così preparata: lettura da parte dei bambini insieme a noi adulti della scena in questione, scelta del luogo dove girare la scena (ogni volta era diverso) preparazione dei costumi e delle scenografie, trucco, ideazione degli effetti speciali, messa in scena improvvisata (la scena veniva girata più volte per fare diverse inquadrature e a causa degli incidenti di percorso), visione collettiva della scena appena girata. La scelta del muto si è rivelata una scelta appropriata non solo per Alberto e per i suoi compagni, ma anche per eliminare il problema dei rumori di fondo, numerosissimi quando si effettuano le riprese in una scuola e ha favorito la drammatizzazione perché, nel girare le scene, potevamo darci dei consigli sui movimenti del corpo e le espressioni del viso che favorivano, negli attori, un’espressione più eloquente ed efficace. L’aggiunta delle musiche, selezionate da Matteo e scelte insieme ai bambini, che, negli spazi chiusi, guidava la messa in scena, aiutava i bambini a calarsi nella parte e a dare un ritmo ai loro movimenti che dovevano essere armonici fra di loro. Nel corso del film, i bambini, stimolati da questa esperienza con la musica, ci proposero due coreografie ideate e attuate da loro insieme ad Alberto che noi aggiungemmo come sogni fatti dai protagonisti e che realizzammo a colori per distinguerli dalla realtà.
Bisogna aggiungere che, appena partimmo con questo lavoro, i bambini ebbero così tante aggiunte da fare e così tante idee su come attuare il film, che noi non ci dovemmo preoccupare di costruire uno storyboard o una scaletta rigorosa, in più, per lo svolgersi della storia non seguivamo un ordine cronologico, ma decidevamo di girare le scene in base al tempo meteorologico (per riprese all’aperto o al chiuso), al tempo che ci veniva concesso dalle maestre per questo lavoro, all’assenza o meno di un bambino da scuola, alla disponibilità di Alberto di vestire i suoi panni di fantasma, ecc. L’importante, per tutti, era divertirsi e stare bene insieme e, alla fine, si trattava solo di un lungo gioco di finzione che lasciava tutti molto liberi di esprimersi, così come accade di solito nei giochi liberi tra bambini, solo che, questa volta, coinvolgeva anche noi adulti.
Il maestro Fabio Campo ci spiegò come utilizzare il programma Pinnacle 9,0 per il montaggio e, io e Matteo, ci trovavamo a casa a fare questo lavoro, dopo aver effettuato le riprese a scuola. Quando finivamo di montare una scena, portavamo il computer portatile a scuola e la facevamo vedere ai bambini, chiedendo il loro parere sul montaggio e i tagli effettuati.
Nel corso di questa attività, anche Alberto si trasformava. All’inizio avevamo avuto qualche difficoltà a fargli indossare un costume e a farlo recitare, poi, con il passare del tempo e mostrandogli sempre la scena girata a fine riprese e la scena montata a fine montaggio, Alberto mostrò un interesse e un entusiasmo sempre più grande per questo lavoro; iniziò a guardarsi allo specchio, a mostrare di piacersi, a sorridere davanti alla sua immagine dentro la videocamera, a stare più tempo in classe, seduto insieme ai compagni. La tecnica dell’improvvisazione basata sulla pantomima, poi, metteva tutti, anche i più timidi a loro agio, poiché i bambini erano abituati a giocare in quel modo tra di loro e quindi dovevano solo abituarsi alla videocamera che, dopo le prime volte, diventò un accessorio marginale. Alberto riuscì anche a capire l’ordine cronologico delle scene e, a film concluso, ripeteva ogni cartello e anticipava ogni scena esprimendosi verbalmente.
A fine anno furono fatte diverse proiezioni: con i genitori e con le altre classi. Il risultato fu così buono che pensammo di proporlo anche l’anno successivo in maniera più articolata e le maestre si resero disponibili a inserirlo nelle attività di programmazione come attività interdisciplinare per tutta la classe.
Fu realizzata da noi anche una versione ridotta del film, che originariamente durava cinquanta minuti, per partecipare al concorso per le scuole indetto dalla Cineteca del comune di Bologna, “Il premio Luca De Nigris”. “Il fantasma di Lord Albert”, fu selezionato e partecipò al concorso, ma non vinse. Alla proiezione della Cineteca andammo con tutta la classe e, per i bambini, fu un’esperienza molto emozionante.
4- Il secondo film: “Il Re dell’Occhio”.
All’inizio dell’anno scolastico, le insegnanti di classe chiesero a noi educatori di pensare a una proposta di cinema per la classe che si articolasse a partire dai primi mesi di scuola. In questo periodo, essendo iscritta alla Facoltà di Scienze della Formazione Primaria, dovevo pensare a un progetto da realizzare nella scuola, così pensai di unire le due necessità e, sotto la supervisione della Dott.ssa Poli, insieme al collega Matteo Pieri, presentammo la nostra idea, che fu approvata dalla scuola, dal gruppo operativo di Alberto, dall’Università e dai genitori.
Avendo più tempo a disposizione pensammo di impiegarlo così: i primi tre mesi di scuola (ottobre, novembre, dicembre) sarebbero stati utilizzati per la visione e l’analisi di diversi film, l’individuazione di un genere a cui far riferimento, la proiezione di film sull’argomento, la discussione sulle potenzialità narrative, la stesura di una sceneggiatura da parte dei bambini, la preparazione dei costumi e delle scenografie, la familiarizzazione con l’uso della videocamera; i restanti cinque mesi di scuola (gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio) sarebbero serviti per la realizzazione pratica del nostro film, dalle riprese al montaggio finale.
Siamo partiti proiettando lungometraggi che avessero come protagonisti dei bambini per far immedesimare i nostri alunni nelle storie rappresentate. I film che abbiamo fatto vedere sono stati: “Zazie nel Metrò” di Louis Malle; “Gli Anni in Tasca” di Francoise Truffaut; “Miracolo a Milano”di Vittorio De Sica. Prima della proiezione del film presentavamo il tipo di storia narrata e raccontavamo qualche aneddoto sul regista e sul film. Le analisi sul contenuto delle pellicole, successive alla visione, vertevano sul carattere e sull’individuazione dei personaggi principali e secondari, la comprensione dell’intreccio degli avvenimenti, il genere di storia narrata, l’individuazione di eventuali effetti speciali, e il giudizio sul film (mi è piaciuto o non mi è piaciuto perché…).
Dopo aver discusso sui generi cinematografici e narrativi, abbiamo proposto ai bambini di girare un film giallo. Avendo avuto la loro approvazione, abbiamo analizzato la struttura narrativa basilare di un racconto giallo e abbiamo proiettato: “Assassinio sul Nilo”, “Dieci Piccoli Indiani” e “Assassinio sull’Orient Express”, dai rispettivi romanzi di Agatha Christie; “Intrigo Internazionale”, di Alfred Hitchcock e, dalle inchieste del commissario Maigret, “Il Cadavere Scomparso”, regia di Mario Landi, con Gino Cervi. Ogni tanto, durante la proiezione, fermavamo il video per chiedere se tutti avevano capito e, se c’erano delle difficoltà, cercavamo di chiarirle insieme. Per ognuno di questi film sono stati messi in risalto lo sviluppo della trama, gli elementi comuni e non comuni, il ritmo delle scene, le musiche utilizzate. Nel corso di queste discussioni con i bambini, abbiamo potuto notare la loro grande capacità di osservazione e attenzione ai particolari che supera di gran lunga quella di noi adulti, forse già educata e diretta a cogliere e a selezionare solo certi elementi e ad apprezzare di più l’armonia dell’insieme. Le maestre, presenti con noi in classe, erano meravigliate dall’abbondanza di osservazioni che i bambini esprimevano in questi momenti. I commenti di Alberto venivano da lui espressi soprattutto in contemporanea alla visione, in modo verbale e non verbale; la sua capacità di partecipare alle discussioni successive era limitata, però egli vi prestava attenzione e stava volentieri in classe durante questi momenti. Di solito, comunque, parlavamo per non più di mezz’ora, per non stancare i bambini e per evitare di far percepire loro questo tempo come una lezione tradizionale.
Una volta concluse le vacanze natalizie, si è proceduto alla seconda fase del progetto: quella più pratica, creativa e coinvolgente. Allo scopo di preparare i bambini alla realizzazione di una sceneggiatura che potesse mettere d’accordo tutta la classe, abbiamo chiesto agli alunni di comporre un breve racconto “giallo”, dopo aver letto loro un libro giallo. Per facilitare questo compito e per fare in modo che tutte le proposte seguissero una direzione di lavoro comune, abbiamo suggerito una possibile ambientazione per la sceneggiatura, un luogo preciso in cui le vicende dei personaggi avrebbero potuto svolgersi: un manicomio. E’ stato spiegato ai bambini, anche se quasi la totalità della classe conosceva benissimo l’argomento, che ogni paziente del manicomio avrebbe dovuto avere dei tic, delle manie strane, che ci sarebbero dovuti essere dei dottori, degli infermieri, oltre a dei poliziotti, a un assassino e a delle vittime. Questi suggerimenti hanno suscitato nei bambini un grande entusiasmo e moltissime idee riguardo ai personaggi che avrebbero voluto interpretare e creare.
Il lavoro di articolazione della trama si è svolto in piccoli gruppi eterogenei (quattro, formati da quattro o cinque allievi) nel corso di due ore; ogni gruppo ha ideato e scritto un racconto e, il giorno seguente, i testi sono stati corretti e analizzati dagli insegnanti e dagli autori, in questo modo sono state raccolte le idee che suscitavano un maggior consenso nella classe. E’ stato necessario, nel corso di una conversazione guidata dagli adulti, ordinare gli avvenimenti sia per evitare che alcune soluzioni adottate dai bambini invadessero troppo il campo del fantastico a scapito del realismo richiesto, anche se qualcosa in tal senso, al fine di trovare un evento che giustificasse i delitti, è stato lasciato, sia in senso cronologico.
Ognuno dei bambini ha sucessivamente ideato e descritto il suo personaggio secondo uno schema preciso (come si chiama, come è vestito, qual è la sua storia, che carattere ha, quali sono i suoi desideri, ecc.), facilitato in questo da un lavoro che era stato portato avanti dalla maestra di italiano. Lo stesso Alberto ha espresso le sue preferenze riguardo al ruolo che avrebbe voluto interpretare: doveva fumare la pipa,avere una lente d’ingrandimento e fare il poliziotto matto. I suoi compagni hanno utilizzato queste indicazioni fornite da Alberto per costruire il suo personaggio. Questa volta, abbiamo deciso di dare ad Alberto una parte fondamentale, ma non quella di protagonista perché non volevamo accentuare la sua diversità rispetto agli altri.
Eseguita così la sceneggiatura del film e la caratterizzazione dei personaggi, ha avuto inizio la messa in opera del film. Questa terza fase di lavorazione si è sviluppata nell’arco di tre mesi e ha richiesto un maggior impiego di ore, e, per non impedire il regolare corso delle lezioni, si è pensato di utilizzare un’ora di intervallo alla settimana, con l’approvazione degli alunni.
Facendo riferimento all’esperienza passata, i bambini e gli adulti hanno deciso di realizzare nuovamente il film utilizzando il bianco e nero per descrivere gli avvenimenti reali, il colore per rappresentare i sogni e le fantasie dei personaggi e di utilizzare i cartelli per la spiegazione della storia e la rappresentazione dei dialoghi.
Al film hanno preso parte, come attori, anche le insegnanti di classe, quella di sostegno e il mio collega Matteo. Per loro gli alunni hanno assegnato diversi ruoli: quelli di marito e moglie, che fanno ricoverare la loro cameriera, per l’educatore e l’insegnante di sostegno; quello del giudice all’insegnante dell’area scientifica e quello dell’ex-aiutante dell’assassino, prima vittima dello stesso, alla collega di italiano. Tale collaborazione ha consolidato i rapporti fra gli adulti di riferimento e gli allievi, che hanno potuto condividere insieme a loro un’attività divergente da quelle “ufficiali”.
I luoghi in cui si è svolta questa attività sono stati: l’edificio scolastico, i cui interni hanno rappresentato gli interni dell’ospedale psichiatrico; Villa Puglioli la cui facciata è servita come esterno al manicomio; e il parco circostante per le scene all’aperto.
Per la realizzazione delle scene sono stati utilizzati dei costumi come i camici per i dottori, le divise per i pazienti, un impermeabile per l’investigatore, cappelli, parrucche, trucchi… e degli oggetti, come la pipa per Alberto, un vecchio telefono, i lettini per le stanze, ecc.; alcune di queste cose sono state acquistate appositamente per il film, mentre, per quanto riguarda le scenografie, queste sono state affidate a un’alunna che ne aveva fatto esplicita richiesta. La complessità di realizzazione di un film e la necessità di far riferimento alle capacità più diverse, permette davvero a tutti di partecipare in modo soddisfacente, anche se, come da copione, va rispettata la suddivisione convenzionale fra personaggi principali e secondari. Risulta quasi impossibile far recitare tutti allo stesso modo, però l’aiuto di tutti risulta fondamentale per la riuscita del film.
Il numero complessivo delle scene ammonta a ventisei e per ogni scena sono state necessarie almeno due ore di lavorazione. Nonostante il grosso impegno richiesto ai bambini, questi ultimi hanno lavorato in modo entusiastico, divertendosi fra di loro e con noi adulti, dimostrando un ottimo spirito di gruppo e una grande capacità di adattamento e di soluzione delle difficoltà che potevano nascere sul campo per la povertà dei mezzi di produzione. Il materiale prodotto dopo aver effettuato le riprese veniva loro mostrato per coinvolgerli maggiormente nel progetto, per valutare il lavoro svolto e per facilitare, successivamente, il lavoro di montaggio.
A tal proposito devo precisare che, a causa di limiti di tempo e di attrezzature, non tutte le scene sono state montate dai bambini. Ciò nonostante il montaggio del film è stato un momento fondamentale per tutta la classe: per i bambini che hanno sperimentato tutto il complesso lavoro di produzione di un film e per gli adulti, che sono stati piacevolmente sorpresi dalla facilità dimostrata dai bambini nell’apprendere tecniche sofisticate.
Il programma di montaggio utilizzato (Pinnacle Studio 9), infatti, pur non essendo il più complesso presente sul mercato, si può considerare mediamente difficile e, la facilità con cui molti bambini si sono impossessati di questo strumento ci ha fatto capire che essi sono in grado di comprendere e destreggiarsi nella complessità.
Trattandosi di un film muto, gli alunni hanno dovuto, nel corso del montaggio, occuparsi di scrivere i cartelli, di scegliere gli effetti di transizione da una scena all’altra e gli effetti speciali che questo software permette di adoperare. Anche Alberto ha partecipato a questo momento di costruzione del film, occupandosi prevalentemente di scrivere i cartelli sotto dettatura.
I risultati di questo lavoro sono: un lungometraggio della durata di cinquanta minuti, un trailer di tre minuti circa, un cortometraggio di venti minuti e una parte molto divertente che contiene le “papere” fatte nel corso delle riprese dai bambini, dagli educatori e dalle insegnanti e che dà un’idea del back stage del film.
Il lungometraggio è stato proiettato sul megaschermo presente in aula video e i bambini si sono dichiarati molto soddisfatti di sé stessi, ma, soprattutto, dei propri compagni; Alberto ha commentato ogni scena in modo appropriato, dimostrando un’ottima comprensione del film e di apprezzarne molto l’intero svolgimento.
Con il cortometraggio, invece, abbiamo nuovamente partecipato al concorso della Cineteca di Bologna “Luca De Nigris”, vincendo, questa volta, il primo premio.
Ma il risultato che noi educatori abbiamo considerato più importante per il nostro lavoro è stato, oltre a vedere la felicità dei bambini per la loro vincita, constatare che in sala nessuno si fosse accorto che a recitare sullo schermo c’era anche un bambino portatore di handicap.
5- Il terzo film : “La Mosca Bianca”.
“La Mosca Bianca” è il titolo dell’ultimo film che gli alunni della scuola Longhena hanno realizzato nel corso del progetto “Film a scuola”. Questo titolo ha avuto origine dal nome che Alberto si è scelto per il suo personaggio, durante la prima stesura della sceneggiatura.
Il progetto è stato presentato da noi educatori agli inizi di ottobre: abbiamo proposto ai bambini l’ambientazione, western-futurista, che avremmo voluto dare al film e, dopo la loro approvazione, scaturita da confronti dialogici, abbiamo precisato i tempi e le fasi in cui l’attività sarebbe stata scandita. Per quanto riguarda i tempi, abbiamo avuto a disposizione dalle insegnanti di classe due ore il mercoledì pomeriggio e due ore del giovedì mattina, ma, presto, questo arco temporale è stato ridotto dalle insegnanti, a causa delle attività della classe e dalla loro preoccupazione, soprattutto nel corso del secondo quadrimestre, di rimanere indietro con il Programma. Così io e il mio collega, abbiamo dovuto chiedere ai bambini, per non modificare il progetto già iniziato, di rinunciare a molti intervalli per portare a termine il lavoro. Ciò ha provocato qualche reazione oppositiva da parte di alcuni bambini a cui si è cercato di rimediare tentando di rendere il più piacevole possibile la partecipazione all’attività, ma anche di responsabilizzare questi bambini alla buona riuscita del film, che è stato scritto e pensato proprio da loro.
Nel corso dei primi incontri, abbiamo proiettato nell’aula video i film seguenti: “Per un Pugno di Dollari” con la regia di Sergio Leone, “Interstella 5555”, un cartone animato disegnato da un autore giapponese, Kiasai, con la regia del gruppo musicale Daft Punk, “Indiana Jones e il Tempio Maledetto” di Steven Spielberg, “Blade Runner” di Ridley Scott, “C’era una Volta il West” di Sergio Leone, “V per Vendetta” diretto da James McTeigue e, per finire, una scena di “Moulin Rouge” di Baz Luhrman. La scelta di questi film eterogenei nelle loro trame ed ambientazioni è stata determinata dal tipo di film che dovevamo realizzare con i bambini. Difatti, i primi incontri sono stati dedicati, oltre che alla visione di film, a discussioni con tutto il gruppo classe riguardo al genere di film che volevamo produrre: una dittatura di cowboy e robot ambientata in un contesto futuristico.
Come accaduto precedentemente per gli altri due film, “Il fantasma di Lord Albert” e “Il re dell’occhio”, ci siamo avvalsi delle tecniche del muto e del videoclip, unite a un particolare uso dei colori nelle scene. Bisogna precisare che questi tre film hanno un filo comune determinato da alcuni personaggi-chiave delle storie che, con l’uso di un espediente nella trama, ricompaiono nelle scene del film successivo; questo per dare l’idea di continuità del progetto che si è articolato nel corso di tre anni di scuola.
Ritornando ai film che sono stati proiettati per permettere ai bambini di trarre qualche spunto per la costruzione dei personaggi e della trama del loro film, abbiamo scelto due classici film western per evidenziare l’articolazione della trama e la caratterizzazione dei personaggi che non sempre si dividono nettamente in “buoni” e “cattivi”, l’arrivo di un giustiziere, che, molto spesso, è spinto dal suo interesse personale (vedi “Per un pugno di dollari” e “C’era una volta il west”). “Indiana Jones e il Tempio Maledetto” è stato preso in esame perché è un film avventuroso, pieno di colpi di scena, e per l’elemento magico dato dalla pietra posseduta dagli abitanti di un villaggio indiano a loro sottratta per tenerli in condizione di schiavitù. Per quanto riguarda “Interstella 5555”, “Blade Runner” e “V per Vendetta”, sono stati analizzati per la loro ambientazione nel futuro, il discorso sulla dittatura e, nel caso specifico di “Interstella 5555” per la commistione fra generi, quello del cartone animato e del videoclip. “V per Vendetta” è stato molto utile alle nostre discussioni con i bambini perché tratta molto chiaramente il tema della dittatura e le varie reazioni ad esso: la sottomissione, la paura, la ribellione, la rassegnazione. “V per Vendetta” ci ha dato anche l’idea, visto l’entusiasmo di Alberto per il personaggio-chiave della storia, di fargli interpretare un personaggio simile a quello del protagonista del film: un giustiziere che spinge le persone a ribellarsi al potere. Da “Blade Runner”, invece, abbiamo tratto spunto per pensare alla nostra scuola come a una città suddivisa in piani che delimitano anche i rapporti di potere[1]: ai piani superiori, contraddistinti dall’uso di un colore sbiadito nel quale risalta il rosso, per sottolineare la caducità della dittatura, vivono i nobili e, a quello più alto la dittatrice; al piano terra vivono i cittadini, in un rigoroso “bianco e nero”; nascosti nei boschi vivono gli indiani ribelli, “colorati” perché hanno avuto il coraggio e la fortuna di scappare e non sono, quindi, contaminati dal “bianco e nero” della sottomissione alla dittatura.
Per finire, “Moulin Rouge”, è stato proposto per la scena di un balletto indiano sulla cui musica è stata creata una coreografia dai bambini per descrivere un sogno fatto dalla damigella d’onore della dittatrice.
Ci siamo ispirati anche al film “Metropolis” di Fritz Lang per il nome della città-scuola “Vivopolis” e l’ambientazione.
La visione dei film proposti è stata seguita da libere conversazioni con i bambini, alla ricerca di idee per il nostro film e per fornire chiarimenti e spiegazioni sui contenuti.
Successivamente, i bambini sono stati divisi in piccoli gruppi e gli è stato chiesto di descrivere molto minuziosamente i loro personaggi: come sarebbero stati vestiti, che ruolo e che carattere avrebbero avuto, quale sarebbe stata la loro storia personale, se sarebbero stati personaggi positivi o negativi, dove avrebbero vissuto, che rapporto avrebbero avuto con Alberto, il giustiziere e, anche, che rapporti avrebbero avuto tra di loro. Anche Alberto ha partecipato a questo lavoro, precisando come voleva essere vestito, quale doveva essere il suo nome e che ruolo avrebbe dovuto avere (“l’eroe”).
Il lavoro sui personaggi ha reso molto più semplice quello sulla trama, che si è articolata intorno alle loro specificità. Alcuni bambini hanno anche deciso che il loro personaggio avrebbe dovuto essere in partenza positivo per poi diventare negativo tradendo i compagni, oppure che, al contrario, un personaggio negativo avrebbe dovuto diventare positivo, sposando la causa dei ribelli, ciò per esplicitare i due punti di vista. Un bambino ha voluto, sotto consiglio del mio collega, essere un personaggio ambiguo (un prete) che non propende né per l’una né per l’altra parte, ma che aspira ad avere il potere assoluto e a eliminare la dittatrice e chiunque si opponga ai suoi piani. Noi adulti, abbiamo aiutato e consigliato i bambini poichè abbiamo partecipato con loro e abbiamo contribuito anche con le nostre idee alla trama, idee che, esattamente come quelle degli altri, venivano modificate e adattate dai bambini ai loro progetti; altre volte, invece, le nostre idee hanno supportato i bambini nel superare delle difficoltà di incongruenze nella trama.
Una buona parte del lavoro di preparazione del film è stata ripresa con la videocamera digitale dai bambini che si sono intervistati a vicenda per descrivere il personaggio che avevano creato.
Il lavoro per piccoli gruppi ha funzionato molto bene e anche il lavoro con il gruppo classe è stato positivo: tutti hanno collaborato allo scopo di costruire una trama coinvolgente e coerente.
Nel mese di gennaio, tornati dalle vacanze natalizie, abbiamo dato inizio alla parte più impegnativa e divertente del lavoro: le riprese.
Prima di cominciare a girare con la videocamera digitale abbiamo redatto una scaletta delle prime scene, decidendo chi avrebbe effettuato le riprese, naturalmente doveva trattarsi di un bambino o di una bambina che non dovevano partecipare attivamente, come attori, alla scena in questione. Abbiamo cercato di seguire un ordine cronologico per facilitare anche il lavoro di trasferimento delle immagini sul computer, ma non sempre è stato possibile a causa dei limiti di tempo che ci sono stati imposti dalle insegnanti nel corso di questa fase di lavoro. Comunque, i bambini, Alberto compreso, sono stati molto bravi a ricostruire il filo logico delle scene, aiutati, in questo, anche da noi.
I costumi con cui abbiamo vestito i personaggi hanno avuto un ruolo fondamentale e sono stati creati dal mio collega sia su richiesta dei bambini, che su sua ispirazione.
Solitamente, il nostro “set cinematografico” era strutturato così: c’erano due o tre adulti, un gruppo di bambini in costume, un bambino con la videocamera digitale. All’inizio, si faceva un ripasso della scena che deve essere rappresentata, si decideva il luogo e, al bambino che deve effettuare le riprese, venivano insegnate alcune nozioni fondamentali: come si accende la videocamera, come si tiene, si consiglia di non usare lo zoom, ma di avvicinarsi sempre quando si vuole fare un primo piano, come si fa una “carrellata”, come fare un campo e contro campo in un momento di dialogo fra due o più personaggi, ecc. Di solito, questo momento preliminare, teorico, non dura molto perché si fa seguire dalla pratica e il bambino che fa le riprese viene seguito passo per passo da un adulto che gli spiega e lo orienta in corso d’opera. Bisogna precisare che ci sono bambini che imparano subito e che non è quasi necessario seguire nel corso delle riprese, mentre altri fanno più fatica e sono più rassicurati dalla presenza e dalla guida dell’adulto. I bambini che recitano, vengono lasciati liberi di improvvisare, sotto la regia dell’adulto che, in certe occasioni, suggerisce un’espressione o un movimento. Di solito vengono utilizzate due videocamere digitali, per permettere la scelta, in fase di montaggio, di più inquadrature e punti di vista: una viene utilizzata da me o da uno dei miei colleghi, l’altra dal bambino o bambina incaricati. Solitamente, il lavoro di regia è comune, nel senso che noi adulti, il bambino che effettua le riprese, e gli attori, dirigiamo la scena tutti insieme. In questo siamo facilitati da tre anni di lavoro con gli stessi bambini, con i quali si è creato un solido rapporto affettivo e una familiarità con le situazioni di messa in scena.
Il lasciare spazio all’improvvisazione e la scelta di utilizzare, quali luoghi per girare il film, diversi spazi, interni ed esterni all’edificio scolastico ha permesso anche ai bambini di altre classi di partecipare al nostro lavoro. I bambini della scuola, infatti, incuriositi dai nostri spostamenti, ci hanno chiesto di partecipare e sono stati accolti, quando la scena ce lo permetteva. In alcuni casi, siamo stati proprio noi a richiedere l’intervento di bambini di altre classi per girare scene di massa, scene che prevedevano dei combattimenti o dei balletti. Ciò è stato molto proficuo per tutti, anche per Alberto che ha avuto modo di rapportarsi ad altri bambini che non fossero i suoi compagni di classe ed è stato un elemento nuovo, poiché nei film precedenti erano presenti solo gli alunni della quinta “C”.
7- Il passaggio alla scuola media: “Il cancello di pietra”. Scuola Guinizelli, classe 1B, anno 2007-2008.
L’esperienza alle elementari si era conclusa con grande tristezza di tutti, perché la classe si sarebbe divisa; in più, era, per noi, la prova inconfutabile che i “nostri” bambini erano cresciuti e non sapevamo ancora con certezza chi avremmo rivisto di loro. L’unica cosa che sapevo era che avrei continuato a seguire Alberto anche alle medie, poiché per un educatore c’è questa possibilità, se viene fatta un’esplicita e formale richiesta da parte della scuola, dei genitori e del neuropsichiatra di riferimento. Sapevamo, anche, che un gruppo dei compagni di scuola e di classe di Alberto sarebbe stato in classe con lui, però non potevamo sapere se avremmo potuto continuare con il nostro progetto di cinema e se avremmo potuto avere la continuità anche con l’educatore Matteo Pieri.
Ricordo che il primo giorno di scuola alle medie fu terribile, non solo per i ragazzi, ma anche per me. Infatti, ci rendemmo conto dell’enorme differenza che c’è tra una scuola elementare e una scuola media, dove già dai primi momenti passati in classe si percepiscono la rigidità degli orari, la minore libertà di movimento e il grosso impegno, a livello di studio, richiesto. Inoltre, se la scuola elementare appare come un piccolo paradiso in cui tutti si aiutano e si respira un clima familiare, non competitivo, ecco che alla scuola media tutto questo scompare e appaiono i professori con le loro discipline cariche di contenuti e aspettative nei confronti dei ragazzi, la riduzione dell’intervallo, l’impossibilità di spostarsi da un piano all’altro… Insomma, tutte quelle regole che nella “nostra” scuola elementare (dico “nostra” perché non conosco altre scuole oltre alle Longhena) non esistevano o che potevano essere facilmente aggirate. Guardandomi intorno, quindi, sentii riaffiorare in me spiacevoli ricordi di scuola e pensai che sarebbe stato molto difficile ricreare un clima adatto per Alberto e per le nostre attività. Fortunatamente, la scuola ci mise a disposizione un’aula di sostegno proprio di fronte alla classe e i nuovi compagni di Alberto fecero subito amicizia con lui. La nuova insegnante di sostegno chiese la mia collaborazione per la stesura del P.E.I., all’interno del quale mise, come priorità assoluta, la necessità di portare avanti il progetto di cinema insieme al mio collega. Facemmo richiesta di una ventina di ore da utilizzare per il progetto e, nel parlarne con Matteo, gli dissi che avremmo dovuto drasticamente ridimensionare i nostri obiettivi, poiché avremmo avuto meno tempo a disposizione. Lui fu più ottimista di me e, in effetti, dovetti ricredermi perché le ore che utilizzammo alla fine furono almeno il quadruplo di quelle richieste formalmente.
Il progetto partì tardi, eravamo circa a metà anno. Purtroppo dovemmo saltare alcune fasi del lavoro: non facemmo vedere film sull’argomento pensato ed evitammo lunghe discussioni sulla trama e sui personaggi. L’ambientazione che pensammo di dare ai ragazzi fu la scuola e altri luoghi esterni (un cimitero e un parco) e l’argomento da sviluppare fu il passaggio alla scuola media trattato in modo fantasy. Ci venne l’idea di far ricevere ai ragazzi, fingendo che fossero alla fine della scuola elementare, un invito (come accade in Harry Potter) per una scuola speciale, molto prestigiosa. Successivamente, al posto dei nostri ragazzi, decidemmo di coinvolgere i bambini di una classe della scuola Longhena, i quali conoscevano già Alberto e i suoi compagni, che avrebbero interpretato la parte dei loro amici più grandi, per rendere più verosimile la storia.
La scuola della nostra storia, in apparenza ambita e richiesta dalle famiglie più in vista della città, avrebbe poi dovuto rivelarsi un bluff: i ragazzi sarebbero rimasti prigionieri all’interno di essa, trovandosi circondati da coetanei amorfi e mezzi addormentati, da professori inumani, con maschere terrificanti al posto dei volti e con un mistero da risolvere. In pratica, la scuola spegneva la vitalità nei ragazzi e i professori indossavano maschere che toglievano loro l’anima. Le maschere, inoltre dovevano essere passaggi segreti verso dei cimiteri. Dovemmo dare più spunti alla trama perché avevamo solo due ore di tempo per discuterla con i ragazzi, però essi, come al solito, si mostrarono pieni di idee e di voglia di fare, soprattutto, a nostra sorpresa, i nuovi compagni che non avevano mai avuto l’opportunità di fare un lavoro del genere. Dividemmo i ragazzi in due gruppi: i vecchi, ovvero quelli che dovevano essere già presenti all’interno della scuola e i nuovi, quelli che vi mettevano piede per la prima volta. Un ragazzo, Francesco, ebbe l’idea di interpretare il direttore della scuola e di fare esperimenti sui ragazzi per rimanere sempre giovane e confondersi fra essi; un altro, Alessandro disse che voleva essere una specie di mostro sopravvissuto agli esperimenti del direttore, che doveva aggirarsi fra le tubature dell’edificio scolastico e al quale sarebbe stata data la colpa degli strani eventi accorsi fra le mura. Ognuno dei ragazzi decise e descrisse il suo personaggio, anche Alberto, a modo suo, diede il suo apporto: disse che voleva essere dei nuovi e indagare i misteri della scuola. In essa, infatti, era stato diffuso un virus che infettava i ragazzi quando questi si trovavano da soli e decidemmo che l’unico immune al virus dovesse essere Alberto, perché era l’unico diverso, con un modo particolare di muoversi e di gesticolare. Iniziammo le riprese alla fine di Febbraio, molto in ritardo rispetto agli anni passati. Le prime scene le girammo con tutta la classe poiché dovevano rappresentare l’ingresso nella scuola, mentre per le altre suddividemmo i ragazzi in piccoli gruppi, in base alle esigenze narrative. Chiesi le ore ai professori settimana per settimana e se qualcuno non poteva darmele, chiedevo a un altro, sempre sotto la garanzia che avrei portato fuori non più di cinque o sei ragazzi per volta e che avrei dovuto dire chi fossero qualche giorno prima, per evitare di far loro saltare compiti o interrogazioni. I professori, dopo le prime resistenze, si dimostrarono tutti collaborativi e ci permisero di svolgere tranquillamente il nostro lavoro. Alcuni di loro si resero addirittura disponibili a indossare le maschere dei professori e a recitare con noi. Per quanto riguarda i luoghi delle riprese, ci aggirammo dovunque nella scuola, utilizzando tutti gli spazi in essa disponibili: la palestra, la piscina, l’aula di pittura, i corridoi, l’aula di informatica, l’ultimo piano, che solitamente è sgombro. Inoltre, chiedemmo ai genitori l’autorizzazione per portare i ragazzi al cimitero della Certosa, per girare una delle scene finali. Al cimitero ci recammo un sabato pomeriggio e, a causa di impegni extrascolastici, venne solo una parte della classe, accompagnata da due genitori che ci aiutarono. Fu un’esperienza molto bella per tutti, alcuni di loro non avevano mai avuto modo di visitare il cimitero per intero e gli piacque molto. Alberto fu contentissimo di girare fra le tombe monumentali e le riprese riuscirono molto bene per le idee che venivano ai ragazzi spontaneamente. Le altre riprese all’aperto le feci quando andammo in gita alle Grotte dell’Onferno (PS), ottenni il permesso di girare all’interno della grotta e ripresi l’ultima scena sulla spiaggia.
Per limiti di tempo non riuscimmo a scegliere le musiche e ad effettuare il montaggio insieme ai ragazzi e, questa volta, utilizzammo una versione aggiornata di Pinnacle (Pinnacle studio 10). Il risultato è un lungometraggio della durata di circa un’ora, contenente il trailer e le papere, come gli altri anni. Nel film sono presenti scene di violenza e sono trattati diversi temi: quello dell’ambiguità e della doppiezza dei professori, il bullismo, la droga, il desiderio di immortalità, il diverso. Abbiamo usato molti effetti speciali, tra i quali un telo verde che fa da sfondo ai personaggi perché, grazie a questo telo, in fase di montaggio si riescono a sovrapporre le immagini una sull’altra e a far scomparire lo sfondo. Tra le scene più impressionanti ce n’è una in cui un ragazzino viene picchiato dai bulli della scuola; anche qui abbiamo utilizzato il succo alla ciliegia e ci siamo molto divertiti a spargerlo sui muri, anche se dopo abbiamo dovuto ripulire tutto. Il tema della violenza verrà approfondito meglio più avanti.
– Il quinto film: “La Scatola Nera”
“La Scatola Nera” è stato l’ultimo film in cui abbiamo partecipato attivamente all’organizzazione e alla trama; per questo motivo abbiamo creato una storia complicata e bizzarra nel montaggio e nella successione degli eventi. In questi cinque anni abbiamo sviluppato storie differenti più o meno lineari, ma questo lavoro è stato il più surreale, nel senso che sono state sviluppate due trame differenti ma complementari che si snodano attraverso due diversi piani temporali: il passato si alterna al presente in un crescendo di flash-back.
Il film descrive una società futuristica perfetta esteriormente e frivola, che ricorda certi stereotipi della nostra società: alcuni dei protagonisti sono personaggi famosi, medici, banchieri, benefattori, ecc. All’inizio il film sembra una commedia un po’ sciocca e divertente, fino a quando “certi” ricordi non affiorano alla mente di tutti i cittadini; infatti questi, in realtà, non si trovano dentro una città, bensì dentro un’astronave modellata dai loro desideri. L’astronave è diretta verso un campo di concentramento che si trova su un altro pianeta e trasporta prigionieri politici, semplici criminali e i loro aguzzini: guardiani e soldati.
La nave doveva fare dimenticare il passato solo ai prigionieri, in modo che questi non si ribellassero durante il viaggio, creando in loro ricordi e una realtà illusoria basata su un finto benessere. In seguito a un incidente, però, tutti i passeggeri, guardie incluse, dimenticano la loro vita precedente, ma, un sistema di sicurezza prevede che i membri della nave riacquisiscano i loro ricordi superando delle prove. Nel corso del film, la parte comica lascia posto gradualmente al terrore dei passeggeri di essere stati perseguitati e torturati, da un lato e, dall’altro, la vergogna di avere commesso dei crimini verso degli innocenti.
Un’idea così complessa è nata per permettere ai ragazzi di possedere tutti gli strumenti necessari alla realizzazione di un film in completa autonomia. Alcuni temi de “la Scatola Nera” riprendono quelli affrontati ne “La Mosca Bianca”, ma, in questo caso, non ci sono stati personaggi nettamente positivi e negativi.
In questo film Alberto è un personaggio buffo e romantico che scopre di essere stato il comandante dell’astronave e, fino all’ultimo momento, si sentirà combattuto tra il continuare a comandare i suoi passeggeri e portarli allo sterminio o se vivere in modo anonimo la sua nuova vita, dirottando la nave.
Tutti gli altri personaggi si troveranno davanti a tre scelte: se continuare una vita anonima e faticosa fuori dalla nave; se dirottare la nave ma continuare a vivere all’interno di essa sotto l’effetto delle illusioni; se proseguire il viaggio con i vecchi ruoli di potere.
Questo lavoro ha più chiavi di lettura ed è difficile da seguire, nonostante ciò Alberto si è appassionato alla storia e al suo personaggio in misura maggiore rispetto agli altri anni. Ne “La scatola Nera” sono stati coinvolti numerosi ragazzini delle altre classi e, soprattutto, quelli che avevano un maggior legame con Alberto.
Anche in questo film ci sono tante scene di violenza perché è ispirato alla persecuzione degli ebrei e ciò ha portato alle ennesime critiche da parte degli insegnanti delle altre classi, che non riescono a capire i ragionamenti e le motivazioni al nostro lavoro, che sono, da noi, molto sentite. Infatti, molti compagni di Alberto, durante le riprese, ci domandavano stupiti: “Ma davvero i nazisti si comportavano così?”; per esempio, durante una delle scene più drammatiche del film, in cui si vedevano i prigionieri, con bende di riconoscimento al braccio, allineati contro un muro, i ragazzini hanno provato un visibile disagio.
Pensiamo, quindi, che la Storia così come è spiegata nei libri e come è rappresentata nei film, venga percepita con maggiore distacco, mentre, se viene messa in scena e agita direttamente, ha un impatto emotivo molto più profondo.
1- La didattica e il cinema.
Oggi – pur in presenza di una diffusa consapevolezza della necessità di porre maggiore attenzione sulla conoscenza degli elementi stilistici e dei meccanismi narrativi che caratterizzano specificamente il linguaggio cinematografico – si assiste aduna molteplicità di approcci che producono esperienze didattiche molto variegate, con finalità e procedure metodologiche spesso non assimilabili o addirittura in contrasto tra loro.
La prima complicazione da affrontare è legata alla stessa definizione del campo di indagine, ovvero la “didattica del cinema”. Come si vede i termini in gioco sono due, poiché oltre al cinema si deve anche trattare di didattica, che qui intendiamo in un significato ben preciso: settore della pedagogia che ha per oggetto lo studio dei metodi per l’insegnamento[2].
Nel linguaggio comune può accadere che la parola “didattica” venga spesso associata senza soluzione di continuità, o talvolta anche come sinonimo, ad altri due termini che, pur appartenendo a un campo semantico non difforme, presentano specificità ben precise: “educazione” e “pedagogia”.
Si intende per educazione l’atto dell’educare, riferito quindi alla voce verbale derivante dal latino “ducere”, ovvero “condurre, portare”, che in italiano ha due significati principali:
1- Guidare e formare qualcuno, specialmente i giovani, affinandone e sviluppandone le facoltà intellettuali e le qualità morali in base a determinati principi. In senso esteso:rendere idoneo allo svolgimento di certe funzioni;
2- Abituare con l’esercizio, con la pratica ripetuta. Sinonimi: allenare, assuefare, avvezzare, esercitare[3].
Con pedagogia, invece, si intende:
Teoria dell’educazione mirante a determinare i fini del processo educativo e i modi più atti a conseguirli[4].
Lo studio sulla didattica del cinema si concentra in particolare sull’analisi dei metodi di insegnamento, senza affrontare la caratterizzazione più educativa, ovvero quella parte riferita maggiormente ai principi di base e alle finalità da perseguire anche in senso morale.
Spesso in passato l’educazione all’immagine si è trasformata, letteralmente, in un pretesto: prima del testo, o a prescindere da questo, il film era un veicolo per trasmettere contenuti, precetti, modalità comportamentali e ideologiche. Tale rischio incombe ancora oggi anche sul versante dell’analisi testuale, in cui possiamo riconoscere, schematicamente, due approcci principali: da un lato chi si concentra sugli esiti dell’analisi, puntando in modo più o meno manifesto alla spiegazione del film; dall’altro, chi pone maggiormente l’accento sulla metodologia e gli strumenti dell’analisi, lasciando spazi più ampi all’interpretazione del film. L’educazione all’immagine appare più legata alla prima evenienza, mentre lo spirito della didattica delle immagini meglio si adatta alla seconda ipotesi.
Anche “didattica” è una parola che può tradursi quotidianamente in senso peggiorativo, soprattutto nel passaggio dal sostantivo all’aggettivo, che spesso diventa sinonimo di “didascalico” e caratterizza qualcosa come eccessivamente rigido e normativo.
Il problema della normatività è centrale non soltanto rispetto alla sfera nominale, ma soprattutto in chiave epistemologica. In che misura la normatività – che qui intendiamo nel senso di definizione di principi assoluti cui ispirarsi e procedure da seguire rigorosamente per raggiungere gli obiettivi finali – è associabile alla didattica?
Tutti gli indirizzi di un certo rilievo dell’odierna scienza dell’educazione, di orientamento sia filosofico sia ermeneutico nell’ambito delle scienze dello spirito sia scientifico-positivo, sono d’accordo nel ritenere irrealizzabile la “didattica normativa”. Su un piano primitivo, prescientifico, nella “didattica normativa” si tratta di indicazioni apoditticamente formulate per l’insegnamento, indicazioni tratte da certi principi empirici e da opinioni tramandate e poi presentate come norma obbligatoria[5].
La critica di Blankertz alla didattica normativa rende problematico l’approccio che si rischia talvolta di utilizzare nell’insegnamento, in particolare per una disciplina ancora sfuggente quale è il cinema, in cui la prassi quotidiana rischia di ispirarsi a principi empirici che si sono trasformati in norma consuetudinaria e informano pesantemente non solo il contenuto dell’insegnamento, ma anche le fasi dell’apprendimento e gli strumenti metodologici. A loro volta questi si tradurranno in materiali didattici specializzati che formeranno altri studenti e docenti, in una spirale senza fine che non riesce (o non può, e talvolta non vuole) ad interrogarsi sull’effettiva coerenza scientifica e sulle conseguenze pedagogiche di un tale processo.
Per la prassi didattica è quindi necessario individuare un elemento di mediazione, che Blankertz identifica con il concetto di “formazione”.
… i contenuti, con le loro richieste, non possono determinare l’educando, ma come teoria educativa devono essere piuttosto applicati in modo che liberino al tempo stesso la ragione critica che, almeno allo stato potenziale, deve potersi rivolgere anche contro gli stessi contenuti[6].
In relazione al cinema e all’audiovisivo si pone poi un ulteriore problema, legato all’idea stessa di educare uno sguardo, poiché l’atto di vedere è profondamente marcato da dimensioni non solo fisiche , ma anche psicologiche, sociali, culturali e antropologiche, spesso difficilmente scindibili o razionalizzabili.
La didattica del film pone poi particolari problemi in un contesto, come quello scolastico tradizionale, in cui i metodi di insegnamento sono tendenzialmente arroccati su una prassi legata all’astrazione concettuale e al livello logico, cui l’immagine sfugge con il suo statuto analogico e con la polisemia insita nei differenti codici audiovisivi che la caratterizzano.
Nessuna trascrizione linguistica, in realtà, può misurarsi con l’estasi percettiva. La visione è davvero qualcosa di primario, una specifica modalità dell’intuizione, che ci fa assistere all’affiorare di qualcosa nello spazio, alla manifestazione originaria dell’essere nel mondo. La visione colloca il soggetto in una posizione privilegiata, di veduta panoramica e sinottica in cui tutto si offre, almeno al primo sguardo, istantaneamente e immediatamente, mentre l’immagine linguistica rimane subordinata alla linearità del discorso, alla temporalità del segno: di qui la ricchezza sensoriale ed emozionale del veduto, che scaturisce dalla rappresentazione – e non da una descrizione astratta e funzionale – dell’essere stesso del mondo (forme, colori, ritmi). La visione, nella sua globalità, coinvolge quindi il soggetto molto più intensamente della verbalizzazione, che necessita di un apprendistato, di una scoperta progressiva, e implica una inibizione del pathos[7].
Ciò comporta una serie di problemi con cui ci si scontra regolarmente se si tenta di applicare una didattica “tradizionale” anche nei confronti delle immagini, come ben sottolinea Geneviéve Jacquinot.
L’immagine lascia più libertà di lettura rispetto alla parola, in una differenziazione che sarebbe utile sfruttare in senso pedagogico. Il modello didattico tradizionale fa dell’atto didattico un atto di trasmissione di un sapere costituito da qualcuno che sa verso qualcuno che non sa, secondo un itinerario rigidamente segnato. L’immagine, e soprattutto quella filmica, è particolarmente adatta a servire un altro modello didattico che fa dell’atto didattico un processo di produzione del senso. In questa prospettiva, il discorso didattico la cui elaborazione chiama in causa direttamente i destinatari si definisce “Aperto”, non esente da ambiguità, in cui domande e risposte sono generatrici di altre domande[8].
La modernità dei supporti non garantisce nulla. Perché il medium è una variabile tra molte altre nel processo educativo; perché lo strumento in sé non comporta nulla, se non una possibilità di cambiamento, l’audiovisivo come molti altri possibili strumenti; infine, perché la novità dei media non implica automaticamente la novità dei messaggi, né sul piano del contenuto, né su quello della sua formalizzazione[9].
L’uso del cinema a scuola non rappresenta automaticamente un fattore di innovazione, prescindendo da variabili che sono viceversa centrali sul piano metodologico: il tipo di film utilizzato; il tipo di analisi da operare; gli obiettivi dell’analisi; gli strumenti dell’analisi; il livello di partecipazione e il rapporto tra docente e discenti.
Per operare in modo complesso nell’insegnamento degli audiovisivi appare necessario superare il livello della didattica elementare e impositiva per strutturare una didattica elaborata, che sia esplorativa per statuto, sappia cogliere e rispettare le specificità dell’immagine audiovisiva e attivi meccanismi comunicativi e partecipativi non univoci, promuovendo lo spazio dell’interpretazione e dell’ambiguità del senso.
La vera novità connaturata all’introduzione di una didattica audiovisiva risiede nel cambiamento radicale del rapporto tra docenti e studenti: gli insegnanti, volenti o nolenti, si ritrovano davanti agli schermi vicino agli allievi, accomunati a loro dalla condizione di spettatori.
Il contatto diretto tra l’allievo e il documento audiovisivo rompe evidentemente tutta una tradizione pedagogica che prevede che l’insegnante s’intrometta continuamente, spezzetta,interpreta, controlla[10].
L’intelligenza scolare – che seleziona in un discorso l’interpretazione, le idee attese dal maestro e l’abilità di formulare le proprie opinioni all’interno di un quadro limitato, definito da una tradizione pedagogica secolare – non è che una parte dell’intelligenza umana, come peraltro dimostrato scientificamente anche dal test di creatività di Torrance, per cui non necessariamente i soggetti con una maggiore cultura scolastica si dimostrano più abili di altri meno alfabetizzati nel risolvere situazioni complesse in cui è necessaria una notevole dose di creatività e non semplicemente l’applicazione di comportamenti appresi in senso normativo. La didattica tradizionale è fondata soprattutto sulla comprensione e sull’espressione verbale, con una tirannia del linguaggio verbale e letterario, a discapito di altre modalità possibili dell’apprendimento, ben sintetizzate da Gardner quando tratta le sette intelligenze umane: il linguaggio; l’analisi logico-matematica; la rappresentazione spaziale; il pensiero musicale; l’uso del corpo per risolvere problemi o per fare cose; la comprensione degli altri individui; la comprensione di noi stessi[11].
La scelta di basare i nostri progetti di cinema sui film muti, che verranno analizzati meglio più avanti, è nata proprio dall’esigenza di dare spazio agli altri linguaggi e alle altre intelligenze. E’ stato Alberto ad ispirare questa modalità, poiché, come ho già accennato, egli si esprime attraverso gesti così enfatici ed espressivi che ricordano i vecchi attori dei film muti come, ad esempio, Jacques Tati, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, ecc.
Con questa tecnica, anche un bambino come lui, che utilizza poco la voce per comunicare, può, per una volta, sentirsi sullo stesso piano degli altri se non più competente.
Una delle più importanti caratteristiche dell’universo dei media (non è un caso che così frequentemente la si rimuova, in sede scolastica) consiste nella drastica apertura che essi operano nei confronti della dimensione ludica: il bambino e il ragazzo giocano con i mezzi, grazie alla complicità, alla facilità, alla piacevolezza degli strumenti di accesso alle macchine, e in questa loro attività recuperano sulla dimensione orizzontale (l’analogia, il confronto, il mettere tutto in rapporto con tutto) quel che eventualmente perdono sulla dimensione verticale (l’approfondimento, l’isolamento dell’unità di conoscenza). In questo senso è da recuperare e convertire a un uso pedagogico una filosofia del gioco(…). Chi sa giocare, e i giovani e i bambini sanno farlo (in particolare sfruttando la componente ludica sempre presente nei media), non esce dal mondo, ma anzi fa entrare il mondo nei suoi spazi mentali e operativi, e quindi lo pone in discussione: non restringe, ma allarga le dimensioni della realtà[12]
Il naturale crearsi di un contesto di gioco fra noi educatori e i bambini ci ha permesso di avere sulla scena una grande spontaneità che ha favorito lo sviluppo di una maggiore creatività. Non avremmo ottenuto gli stessi risultati se ci fossimo attenuti a un rigido storyboard per la messa in scena o se avessimo fatto uso, nel parlare con i bambini, di un linguaggio tecnico, o se li avessimo tenuti in posa per ore allo scopo di ottenere un’inquadratura perfetta. Il nostro obiettivo principale era quello di divertirci insieme ai bambini e di scoprire insieme i trucchi e le possibilità di un mezzo espressivo che ci avrebbe permesso di realizzare le idee di tutti e di rappresentarle in modo libero. Volevamo evitare quel tipo di didattica normativa che inibisce le azioni perché costringe adulti e bambini in ruoli rigidi e determinati e che è espressione di una gerarchia di poteri deleteria. Questa gerarchia, infatti, divide il mondo in buoni e cattivi, sapienti e ignoranti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, ecc. e tiene le sue radici nella scuola che è il luogo in cui i bambini dovrebbero imparare a rimuoverla, in quanto generatrice di ingiustizie e separazioni.
Noi educatori volevamo essere guide e compagni di gioco per raccontare una storia insieme ai bambini e per trasformare la scuola, sia in senso fisico che ideale, in un posto utile a realizzare i nostri desideri, senza dover sottostare alle aspettative istituzionali e agli stereotipi che rendono la scuola un luogo di trasmissione di conoscenze subite, e non cercate o create, dai bambini. Non è sufficiente, quindi, portare il cinema nella scuola, se poi si ha questa idea gerarchica e rigida della cultura in testa, se non si da spazio alla relazione, alla fiducia, all’amicizia, se non ci si cerca di avere un dialogo soprattutto affettivo con i bambini, che permetta loro di non sentirsi incapaci, impacciati, bloccati, giudicati.
6- La funzione della musica nel cinema.
Il cinema si serve di svariati linguaggi: quello narrativo, quello iconico, quello verbale, quello corporeo-gestuale, quello musicale. In questo paragrafo vorrei prendere in considerazione la musica in quanto, essendo di per sé un linguaggio evocatore di immagini interiori e dotato di una sua grammatica e specificità, quando viene unita a un flusso di immagini in movimento assume un significato e un compito particolari. Nei film che abbiamo girato con i bambini la musica è stato un elemento fondamentale per la creazione e l’ideazione delle scene e abbiamo considerato un’importante passo in avanti con Alberto il fatto di poterla utilizzare, poiché lui, inizialmente, la odiava, arrivando a tapparsi le orecchie per il fastidio di udirla. La musica, invece, unita alla danza, gli ha permesso di incontrare i compagni e di comunicare con loro in modo diverso, attraverso le emozioni. Perché la musica permette di comunicare emozioni profonde? E perché i suoni della musica inducono certi movimenti dando un ritmo alle azioni e provocando la nascita di immagini? Quest’ultimo interrogativo è nato dal fatto che i bambini, ascoltando una musica, sono in grado di creare dei movimenti e pensare a delle coreografie in modo spontaneo. Questo è ciò che hanno fatto le compagne di Alberto che hanno pensato e attuato una danza ispirandosi a una musica e coinvolgendo in essa Alberto.
L’utilizzo della musica al posto delle parole è stato pensato per non far emergere le difficoltà e lo svantaggio linguistico di Alberto rispetto ai suoi compagni di classe allo scopo di creare una situazione paritaria con i suoi compagni, nella quale entravano in gioco competenze uguali.
Servendoci della discrepanza fra immagini e suono, che produce un effetto di incredulità e ironia in chi guarda, in una scena del film “La Mosca Bianca” abbiamo mostrato l’uccisione, da parte di Lucilla, robot perfetto al servizio della dittatura, di molti cittadini di Vivopolis. Lucilla si aggira danzando in modo leggiadro sulle note di “It’s all so quiet” di Bjork, armata di arco e freccia, prendendo di mira chiunque le capiti a tiro e mostrando una vera e propria gioia nell’uccidere. Abbiamo scelto la musica di Bjork perché ci era stata richiesta e proposta dalla bambina, che è una fan della cantante, oltre ad assomigliarle in modo impressionante. E’ evidente l’ironia della scena e, grazie alla musica stridente, essa viene messa ancora di più in risalto, proprio come accade nella già citata scena di Chaplin; anche da noi, la fonte della musica è di tipo extradiegetico.
Un esempio di musica infradiegetica nei nostri film la possiamo trovare in “Il Fantasma di Lord Albert”, in una delle scene iniziali, quando i bambini della famiglia Oleandri ballano al ritmo della musica di Vivaldi “Allegro, R. V. n. 405”; oppure in “Il Re dell’Occhio”, nella scena in cui i “matti” e il personale dell’ospedale psichiatrico danzano a ritmo di un minuetto (tratto dalla colonna sonora del film “Old Boy”), “The Last Waltz”, durante la festa organizzata per il ritorno del Direttore del manicomio, scagionato dalle accuse di omicidio. La musica serve anche a sottolineare momenti di tensione, infatti, sempre riferendomi alla scena del ballo ne “Il Re dell’Occhio”, quando, durante la festa, l’assassino si impadronisce di un vassoio, versa nel bicchiere un strana polverina e noi vediamo il vassoio fluttuare per aria e raggiungere la malcapitata vittima, la musica di colpo si trasforma e, alle dolci note del minuetto, si contrappone un ritmo pieno d’angoscia, una musica (“Escaflowne”) che dà l’idea di una lama di un coltello che si abbatte su qualcuno. Qui la musica passa dalla modalità infradiegetica a quella extradiegetica nello spazio di un’inquadratura.
E proprio facendo riferimento alla lama del coltello, quando questo davvero si abbatte su una povera cameriera internata nell’ospedale, le coltellate sono sferrate a ritmo di musica, una cover elettronica di Vivaldi “Storm”, di Vanessa Mae (extradiegetica).
Un ulteriore esempio di musica interna alla scena è dato, sempre in “Il Re dell’Occhio”, dal momento in cui avviene il primo delitto e si ode uno sparo vero, mentre la videocamera inquadra, in dettaglio, una pistola. Nei lavori successivi abbiamo sovrapposto sempre di più il sonoro composto dalle grida dei bambini con una musica. Come, per esempio, nella scena della cattura dei ragazzi da parte dei professori in “Il Cancello di Pietra”, dove la musica di Peter Gabriel, “Darkness”, è sovrapposta a grida e rumori, come le porte che sbattono.
Nel trailer di “La Mosca Bianca” i bambini hanno cantato e suonato con strumenti a percussione, una canzone popolare “Istud Vinum”, che è stata poi mixata da Matteo Pieri con strumenti elettronici e ribattezzata “Lux”.
Infine, nel film “La Mosca Bianca”, abbiamo ricreato una specie di rave, con musica elettronica altissima “What else is there, trentmoller remix” dei Royksopp, impiegando luci stroboscopiche e colori fluorescenti.
Nei film è quindi evidente il ruolo cruciale svolto dalla musica come portatrice di significato, provocatrice di emozioni e movimenti ritmici sia nel pubblico che negli attori, capace di suscitare un senso di coesione sociale, di evocare ricordi e di narrare gli eventi scenici.
Oltre alla scena sommariamente descritta e a quella citata all’inizio di questo paragrafo (presente ne “Il Fantasma di Lord Albert”) che ha consentito ad Alberto di apprezzare la musica e di effettuare movimenti ritmici per la prima volta in vita sua, vorrei descrivere un’altra scena presente nel film “La Mosca Bianca”, che servirà anche ad introdurre l’argomento che tratterò nella prossima sezione. La scena in questione riguarda un gruppo di bambini che finisce nel laboratorio di uno scienziato che aveva costruito degli androidi. Quando i bambini entrano nel laboratorio, i robot sono spenti, ma, uno dei bambini trova un telecomando e li aziona. Gli androidi si svegliano e incominciano a muoversi a scatti seguendo il ritmo della musica. Il brano che abbiamo utilizzato è “Technologic” dei Daft Punk, di genere elettronico; il ritmo di questa musica si presta in modo particolare all’esecuzione di gesti meccanici. In questo modo, i bambini sono stati agevolati nell’esecuzione di movimenti per niente facili, poiché coinvolgevano tutto il corpo e nel muoversi dovevano tenere gli occhi aperti, sbarrati, per dare l’impressione di non essere umani, ma macchine. C’è anche un momento in cui tutti i robot si muovono insieme per poi bloccarsi all’unisono sulla fine della musica.
Quando non è stato possibile avere una musica di sottofondo, avevamo già in mente un brano specifico o un genere musicale che avremmo usato nel montaggio e quindi dirigevamo la scena e i bambini seguendo questa “intenzione” melodica.
In generale il nostro lavoro è fondato principalmente sulla musica associata alle immagini e valorizzata in fase di montaggio, come si vedrà più avanti nel paragrafo sulla violenza.
I film di fantascienza
Nell’esperienza con i bambini a scuola, durante la lavorazione del film “La Mosca Bianca” e in “La Scatola Nera”, abbiamo utilizzato i film di fantascienza, sia per prendere degli spunti per i nostri film, sia per riflettere con i bambini sulla suddivisione sociale, così evidente, ad esempio nel film “Blade Runner” di Ridley Scott che prende ispirazione, appunto, da “Metropolis”. “Blade Runner” ci ha dato altre occasioni di riflessione con i bambini come quella dell’ “umanità” dei cyborg. La Mosca Bianca (il personaggio di Alberto), infatti, è un robot salvato dalle discariche e, al contrario della perfida dittatrice e della sua corte, che sono esseri umani, dimostra di avere un’anima nel voler rischiare la sua vita di robot per un ideale. Il suo cervello elettronico è stato in grado, più degli altri, di ragionare sulle ingiustizie di una dittatura e di ridare speranza a un gruppo di ribelli e di cittadini scoraggiati (come accade nel film “V per vendetta”, dove l’eroe è un altro esperimento del regime dittatoriale). Nel film “La Scatola Nera”, i riferimenti cinematografici sono stati “Il Pianeta delle Scimmie”di Franklin J. Schaffner, il telefilm “Lost” creata da J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber e Carlton Cuse, “Solaris” di Andeij Tarkowskij, “Matrix” dei fratelli Andy e Larry Wachowski, “L’Esercito delle Dodici Scimmie” di Neil Gaiman. In questo film abbiamo affronato, oltre al tema della persecuzione ebraica, la tematica del potere dell’immagine e del potere che, attraverso l’apparenza, crea l’illusione di una società perfetta dove tutti sono felici e incapaci di ribellarsi alle ingiustizie.
Per rappresentare il rapporto oppressori-oppressi abbiamo usato diversi simboli come lo sterminio dei pellerossa perpetrato dagli occidentali e l’Olocausto. Questi argomenti sono stati affrontati alle elementari dalla maestra dell’area matematico-scientifica che si occupava anche dell’insegnamento della storia: i bambini avevano letto libri, fatto ricerche su Internet e visto film sul tema; mentre alle medie i ragazzi avevano studiato la persecuzione degli ebrei e l’origine del razzismo con la professoressa di italiano e storia.
Nel film “La Mosca Bianca” il popolo sterminato, del quale sopravviverà solo un gruppo di ribelli, indossa costumi futuristici da pellerossa, mentre gli oppressori hanno abiti da cow boy uniti alla simbologia dittatoriale ispirata al nazismo. In “La Scatola Nera”, ai protagonisti viene cancellata la memoria in modo da rimescolare il ruolo tra oppressore e oppresso.
L’introduzione di una storia vera in una storia inventata permette di far assumere al film di finzione la funzione di documentazione della realtà.
8- La violenza nei film per bambini.
La fantascienza, e tutta la letteratura fantastica in generale, attinge i propri contenuti da dati semplici del reale; quasi tutta l’abilità di uno scrittore risiede nelle capacità di vedere al di là di ciò che si presenta come materia e come oggetto. Per certi versi, può ricordare il viaggio nell’inconscio che viene fatto attraverso il percorso psicanalitico e il resoconto di questo viaggio non può essere fatto utilizzando un linguaggio normale, ma può essere descritto solo tramite il linguaggio simbolico della psiche.
Al di là di ogni simbolo si nasconde una verità: perché il fantastico è vero, naturalmente. Non è reale ma è vero. I bambini lo sanno. Anche i grandi lo sanno, ed è proprio per questo che molti di loro hanno paura del fantastico. Sanno che la sua verità è una sfida, e persino una minaccia, a tutto ciò che è fasullo, inutile e volgare nella vita che si sono lasciati costringere a vivere. Hanno paura dei draghi perché hanno paura della libertà. (Le Guin 1979)
Un adulto non è un bambino che ha cessato di vivere, ma è un bambino sopravvissuto e un bambino trasforma continuamente il mondo seguendo la sua fantasie. Da essa possono scaturire robot, che , con le loro invincibili corazze d’acciaio, possono essere l’espressione della paura del corpo dopo la divisione fra mente e corpo; oppure possono nascere gli alieni, quindi il contatto con l’Altro che vive dentro di noi. Ma questi sono contenuti universali che popolavano, ad esempio, le fiabe nelle quali le figure femminili erano relegate a un ruolo di vittima sacrificale o di strega malvagia da annientare.
Il termine fantastico richiama quello di “fantasma”, che è l’immagine che risiede nella nostra memoria, la quale può distruggerla o crearla.
La letteratura fantastica ci presenta spesso il problema della diversità e dell’Ombra, ed esse sono talmente lontane da ciò che viene definito “normale”, che ci appaiono come inumane.
Gli esseri del fantastico abitano la morte e il buio, il lato in ombra delle cose che si cela dietro ciò che appare; sono, quindi, “apparizioni”. Le varianti di queste apparizioni sono il patto con il demonio (Faust), lo spettro errante che torna a chiedere vendetta, i vampiri, i manichini o gli automi che si animano (Frankenstein), ecc. [13]
Nei film che abbiamo scritto e girato insieme ai bambini ci sono tutte queste apparizioni fantastiche: in “Il Fantasma di Lord Albert”, abbiamo un fantasma che, prigioniero di una maledizione fatta da tre streghe crudeli, si risveglia ogni cento anni dal suo sepolcro per andare a spaventare i nuovi inquilini della sua casa; in “Il Re dell’Occhio”, c’è un robot assassino comandato da uno scienziato crudele; ne “La Mosca Bianca”, troviamo un esercito di robot al servizio di una dittatura e uno di essi, La Mosca Bianca, vi si ribella; infine, in “Il Cancello di Pietra” c’è uno scienziato che ruba l’anima ai ragazzi di una scuola per condurre i suoi esperimenti sulla vita eterna. Ne “La Scatola Nera” abbiamo usato la violenza nel modo più realistico possibile, per rivelare gli orrori del nazismo e delle persecuzioni senza dare ai ragazzi una visione edulcorata sull’argomento.
L’immaginario dei bambini e dei ragazzi, nonché di noi adulti, è pieno di figure paurose e di storie da brivido; basti pensare al successo che hanno sempre avuto i romanzi e i film di genere giallo, thriller o horror, ma anche al fatto che questi generi ne contaminino altri come accade con la fantascienza, il fantasy, e, addirittura il rosa.
Il poter condividere le nostre paure raccontando agli altri i nostri incubi ci rende più forti, perché li esorcizza, e favorisce l’immedesimazione negli altri, l’empatia con le altrui sofferenze, provocando il nascere di alleanze e di amicizie e suscitando un senso di appartenenza che difficilmente riusciamo a sentire nella quotidianità, quando la maggior parte di noi è impegnata a nascondersi dagli altri. Si impara precocemente a indossare una maschera sociale, a fingere di stare bene, quando, in realtà, spesso siamo vittime degli avvenimenti che ci circondano. Noi crediamo che i bambini non siano felici e che la condizione dell’infanzia non sia il paradiso perduto: i bambini hanno spesso paura, si sentono soli e non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto.
Allora la salvezza è raccontare, raccontarsi e trovare nei racconti degli altri qualcosa di simile a noi, per non pensare di essere diversi, incompresi e per non credere di dover portare per sempre quella maschera che gli altri, genitori in primis, ci porgono, per vederla aderire al nostro volto in modo perfetto, senza incrinature.
Noi adulti vogliamo che i nostri figli o che i bambini di cui ci occupiamo a scuola non arrivino a sentire le discrepanze, le rotture che noi ci portiamo dentro, e che sono evidenti nel mondo, per evitare loro di soffrire, ma non ci rendiamo conto che loro già soffrono e già sono capaci di vedere queste disarmonie nella realtà che li circonda. Quello che possiamo fare noi, per loro, non è evitargli di soffrire, ma prendere parte ai loro racconti e condividere insieme a loro le nostre paure attraverso l’esercizio della fantasia e il potere dell’immaginazione. Inoltre, possiamo fornirli dei mezzi per appropriarsi di alcune chiavi di interpretazione del reale, cercando di sviluppare in loro capacità critiche e di analisi.
Nella crescita è insita la morte, poiché noi mutiamo incessantemente e ce ne accorgiamo anche solo guardandoci in uno specchio; per questo motivo non ha senso non parlare di malattia o di morte con i bambini.
E’ giusto, allora, non parlare e non mostrare la violenza ai bambini? Secondo noi, bisogna parlarne e mostrarla ma utilizzando il loro linguaggio che funziona attraverso simboli e analogie. E’ quello che noi abbiamo cercato di fare con i nostri film. Abbiamo parlato di morte, di sterminio, di prevaricazione sugli altri, di esclusione, di pericolo, di esercizio malvagio del potere, di pedofilia. Di tutte queste cose i bambini fanno esperienza ogni giorno, anche se noi cerchiamo in tutti i modi di tenerli lontani. In più, fanno esperienza, dentro sé stessi, della presenza di una parte oscura e del male: il conflitto fra bene e male è fuori e dentro l’individuo, e anche questo i bambini lo avvertono.
I bambini hanno accesso ai giornali, soprattutto ora che vengono distribuiti gratis per le strade. A scuola li vediamo arrivare spesso con uno di questi giornali sottobraccio, e li sentiamo chiederci ragione di certi articoli che leggono o di certe foto che vedono.
Il mondo dei bambini, quindi, non è un mondo a sé e noi adulti dobbiamo smettere di pensare che sia così, ma soprattutto smettere di credere che la loro mente semplifichi o distorca il reale, perché la maggior parte delle volte i bambini comprendono perfettamente, anche se questo non impedisce loro di chiederci “Perché?”.
Vorremmo fare un’altra considerazione sulla violenza così come l’abbiamo affrontata noi nei nostri film e per farlo ci dobbiamo riallacciare al discorso sul fascino che essa suscita nei bambini, oltre che negli adulti. Ci è capitato varie volte di effettuare il montaggio delle scene con i bambini e, di conseguenza, è successo che ad essere montate fossero proprio delle scene violente. Ciò è accaduto con il film “Il Re dell’Occhio”, nel quale, essendo un giallo, vengono mostrati vari tipi di morte: per sparo, per avvelenamento, per coltellate. C’è una scena in cui una cameriera, internata nel manicomio in cui si svolge il film, sta spolverando (la sua mania è, appunto, spolverare e pulire); la telecamera la riprende in soggettiva secondo lo sguardo dell’assassino e, all’esterno, sul muro è proiettata l’ombra dell’assassino e della vittima ignara (mi sono ispirata al film “Psyco” di Hitchcock); a un certo punto, nell’inquadratura compare un coltello impugnato, appunto, dall’assassino, la povera cameriera si volta di scatto, tenta di difendersi, ma il coltello, implacabile, si abbatte su di lei, che cade per terra, cosparsa di sangue (pomodoro). I bambini hanno voluto montare con noi questa scena e, nel farlo, hanno discusso animatamente fra di loro sul modo in cui avrebbero dovuto tagliare le scene per provocare un effetto più cruento e impressionante negli spettatori.
Il fatto di saper costruire questi effetti speciali può consentire ai bambini di essere meno suggestionati durante la visione di un film che li impiega. Inoltre, la drammatizzazione della messa in atto di un finto omicidio ha sicuramente un effetto più positivo della semplice visione passiva della violenza. Quando mostriamo i trucchi, togliamo il fascino del proibito a queste azioni, perché facciamo sì che esse vengano messe in atto sotto lo sguardo degli adulti, in un contesto istituzionale e quotidiano come quello scolastico. Diciamo che, in questo modo, gli atti violenti perdono un po’ del loro fascino, perché si “normalizzano” e nello stesso tempo acquisiscono profondità e si aprono a significati meno immediati e “shoccanti”. Mentre, invece, metterli all’indice e fare tante discussioni teoriche sulla violenza con i bambini o i ragazzi molte volte non serve, anzi, pone questi atti sotto una luce di eccezionalità che può sedurre, invece che respingere.
E’ accaduto così anche quando abbiamo affrontato l’argomento del “bullismo”. Esso è presente sia nel primo film “Il Fantasma di Lord Albert”, che nell’ultimo “Il Cancello di Pietra”; in questi film, soprattutto nel secondo, abbiamo girato scene molto pesanti che riguardano i bulli della scuola. I bulli del film “Il Cancello di Pietra” assumono sostanze stupefacenti che li portano a picchiare i compagni sotto il comando dello spietato scienziato-direttore della scuola. In realtà, le pillole prese dai bulli (che richiamano le pasticche di ecstasy) erano delle semplicissime caramelle Mentos alla frutta, mentre il sangue che esce dalla bocca di una delle vittime era comunissimo succo di ciliegia Fabbri. Penso che la messa in scena e l’uso di questi effetti speciali valgano più di mille parole per eliminare il bullismo dalle scuole. E’ proprio la ridicolizzazione, attraverso le caramelle e il succo di ciliegia, che consente ai ragazzi di prendere le distanze da certi comportamenti per rendersi conto di quanto siano, appunto, ridicoli, stupidi, finti e costruiti per dare una diversa immagine di sè. Una presa di distanza del genere non sarebbe possibile attraverso discorsi moraleggianti, anche perché la morale e il senso etico devono essere qualcosa che scaturisce dal profondo dell’individuo, non possono essere indotti solo dall’esterno. Devono, cioè, essere una ri-costruzione personale.
Nel film “La Scatola Nera”, tra le varie scene di violenza costruite da noi, c’è ne è stata una proposta dai ragazzi, riguardante la tortura di un prigioniero: essi hanno suggerito i vari passaggi della tortura, dimostrando di essere a conoscenza di tante situazioni violente celate ai ragazzi in maniera ipocrita, noi abbiamo fornito un contesto coerente in cui queste situazioni si sviluppano, provocando dolore e sopraffazione. La nostra è stata una scelta molto criticata, ma pensiamo che non abbia senso continuare a parlare di giornate della memoria, omettendo gli orrori reali che hanno portato alla strage di milioni di persone.
Fingere, drammatizzare, mettere in scena, consente di prendere le giuste distanze, perché permette di relativizzare e di alleggerire, rendendole ridicole, questioni che esposte solamente ai riflettori della moralità comune, rischiano di affascinare e attrarre verso di sé i bambini e i ragazzi che noi vorremmo, in questo modo, tutelare.
CONCLUSIONI
Questo lavoro è il risultato di un progetto di integrazione che va avanti da cinque anni; l’approfondimento teorico è stato successivo all’esperienza che è stata descritta. La ricerca dei riferimenti teorici è stata faticosa perché non abbiamo trovato lavori che assomigliassero a quello portato avanti per tanto tempo da noi, anche se il tema della disabilità è stato affrontato da molti registi. Tutti questi prodotti cinematografici mettono il disabile come protagonista o la disabilità come argomento principale. Noi abbiamo cercato progressivamente di distaccarci da questi intenti perché abbiamo capito che il disabile era in una realtà molto più grande del suo singolo caso e che intorno a lui si muovevano altre persone che con i loro stati d’animo e le loro situazioni influivano in modo più o meno diretto su Alberto e l’ambiente in cui ci trovavamo. Quello che ci interessava documentare era un’esperienza normale di gioco e di apprendimento a cui Alberto partecipava insieme agli altri bambini in modo spontaneo e in continua evoluzione. In più si trattava per tutti, noi educatori e i bambini, di partecipare e di costruire dal niente, anzi da una passione, qualcosa di nuovo. Il fatto di essere tutti sullo stesso piano riguardo alla messa in opera di un progetto simile, ci ha unito e ci ha portato a fidarci dei nostri istinti. Quando abbiamo iniziato a capire che il nostro gruppo funzionava bene, abbiamo trovato il coraggio di scontrarci con le burocrazie e di batterci contro le rigidità. Il primo film “Il Fantasma di Lord Albert” era stato girato anche allo scopo di trasmettere l’immagine dell’invisibilità di Alberto e delle sue difficoltà a trovare un posto per sé nella scuola e con i compagni. Dopo questo film, Alberto ha fatto un grosso cambiamento e ha iniziato a far parte della sua classe in modo più consistente e noi abbiamo documentato questo progresso assegnandogli ruoli sempre più paritari agli altri. I nostri film di finzione si sono evoluti insieme all’evolversi della situazione reale, assumendo, quindi, una funzione di documentazione dei cambiamenti quotidiani di Alberto, dei suoi compagni e dell’evoluzione del nostro lavoro. Tutti i personaggi costruiti dai bambini si basavano sulle loro particolarità caratteriali e le loro stranezze comportamentali; allo stesso modo, per Alberto sono stati creati, dai bambini e da noi, dei personaggi che rispecchiavano le sue peculiarità.
Il nostro lavoro è stato possibile solo grazie un ambiente flessibile e a delle persone che hanno condiviso le loro passioni con noi, senza lasciarsi fermare da vincoli di tipo burocratico.
Oggi viviamo in un mondo molto frammentato che vuole dichiararsi globale; tale frammentazione è evidente nei campi del sapere e negli indirizzi di studio che creano degli specialisti in ogni settore. Troviamo che in questo modo si rischi di perdere sempre più una visione d’insieme della cultura, che una volta c’era; così, molte volte, non ci sentiamo autorizzati ad esprimere dei pareri e a intraprendere delle strade perché pensiamo di non averne le competenze e purtroppo, trasmettiamo questa nostra idea anche alle nuove generazioni, che, sempre più, si sentono incapaci di agire culturalmente. Spesso pensiamo che la cultura debba appartenere a tanti status differenti che non si intrecciano mai tra di loro. Abbiamo visto che il cinema, in questo caso, è uno strumento di integrazione di vari codici culturali e per questa sua caratteristica può aiutarci a superare queste barriere mentali. Essendo un crocevia di tanti mezzi espressivi, il cinema permette a tutti di coltivare e condividere con gli altri i propri interessi, che possono riguardare un tipo di musica, un fatto di cronaca, un film, un balletto, un libro o uno spettacolo, senza che questi si trovino necessariamente in una programmazione didattica specifica, ma possono divenirne oggetto proprio grazie alla loro trasversalità.
Sarebbe auspicabile che esperienze come la nostra, che speriamo non siano uniche, venissero messe in circolo a livello territoriale, nazionale e internazionale, per avere dei riferimenti e degli scambi continui fra le persone.
Il cinema attribuisce vita agli oggetti e si configura come reinvenzione del reale e dell’irreale.
Bibliografia
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Piero Bertolini, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, 1990.
[1] [1] Sull’organizzazione spaziale della città in “Blade Runner” e sulle sue implicazioni socio-politiche, anche in relazione a come essa viene declinata in altri film affini (Metropolis, Batman Forever, Armageddon, etc.), rimando a “Blade Runner”, di R. Menarini, Torino, Lindau, 2001.
[2] N. Zingarelli (1970), Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli.
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] H. Blankertz (1977), Teorie e modelli della didattica, Roma, Armando.
[6] Ibid.
[7] J.-J. Wunenburger (1999), Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi.
[8] G. Jacquinot (1977), Image et pédagogie, Parigi Puf.
[9] Ibid.
[10] B. PLANQUE, Audio-visuel et enseignement, Casterman Parigi 1971.
[11] H. GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano 1988.
[12] ROBERTO MARAGLIANO (2004), Nuovo manuale di didattica multimediale. Bari, Laterza.
[13] ALDO CAROTENUTO (1997), Il fascino discreto dell’orrore, Milano, Bompiani.