Diario di un ritiro spirituale in prigione africana (autore in anonimato)

Traduzione dal francese di Maria Pia Salmaso. Maria Pia Salmaso. Mamma e nonna. Insegnante di lettere in pensione. Ha corretto molte bozze tra cui alcuni libri di Chiara Amirante, fondatrice della comunità ‘Nuovi Orizzonti’, e una ventina di tesi di laurea e pubblicazioni di amici vari. Segue alunni di origine straniera nel doposcuola. Frequenta corsi di lingua inglese e spagnola anche per potere comunicare con le persone durante i numerosi viaggi autogestiti, di cui condivide la passione col marito. Altre sue passioni sono il canto, il ballo, lo sci e l’attività sportiva in generale.

 

 

Una storia vera di un autore di cui si mantiene l’anonimato (anche i nomi delle persone sono fittizi) sul tema del carcere femminile in Africa e sulla via spirituale. In un certo senso un’esperienza mistica possibile e utilissima proprio nel contesto del carcere, soprattutto femminile, simbolo dell’esclusione e stigmatizzazione sociale.

L’originale francese lo trovate qui:

https://promosaik.org/wp-content/uploads/diaire.pdf

 

cristo nero di boissano

Il Cristo Moro di Boissano (SV). Fonte: wikimedia

 

Prima di superare la doppia porta di metallo sorvegliata da uomini e donne armati, devo scambiare la mia Carta d’Identità con un pass da appendere al maglione. La guardiana di servizio, in uniforme verde scuro, indossa una cintura con i colori della prigione: verde, giallo e rosso. Mi riconosce e mi chiede con un sorriso di benvenuto:

– Fratello, come va stamattina? 

– Molto bene, sono tornato per l’ultimo giorno del nostro ritiro. 

– Non avete un rosario da darmi?

– Ho solo una diecina (rosario da dito simile a un anello con 10 piccole protuberanze per il conteggio delle Ave Maria di ciascuno dei 5 misteri del rosario -NDT); ma la mia collega le porge il suo rosario.

Ed eccoci nel grande spiazzo dove si trova il carcere femminile (350 persone), la sezione di custodia cautelare (300 donne), gli alloggi dei guardiani, una scuola materna, le chiese e la moschea, dei campi, una stalla, un canile … Insieme a noi sono entrati due bambini che vanno alla scuola materna. Camminano compiti, come sanno essere i bambini, ciascuno su un lato del percorso, nelle loro divise bianche e blu. Comincio col salutare la bambina che mi risponde con un bel sorriso; il suo nome è …. Quando chiedo al suo compagno come si chiama, mi manda uno sguardo furtivo e prosegue per la sua strada come se non esistessi. Mi ricorda con garbo che ogni volta che qualcuno mi accoglie, anche se solo con un sorriso, è un privilegio, un dono, non un dovere. Quando un vicino mi apre la porta della sua casa e il suo cuore, mi fa un favore inestimabile, immeritato. Anche entrare in un carcere di massima sicurezza è un privilegio che non mi sarà dato nella vicina …

Qui l’amministrazione penitenziaria prende molto sul serio il suo ruolo di riabilitare le detenute: ci sono laboratori dove possono imparare a cucire, lavorare a maglia, ricamare, cucinare, produrre lavori in ceramica o gioielli. I corsi sono a livello primario, secondario, universitario. Vengono organizzate attività artistiche e sportive. E’ impressionante vedere l’importanza data alla vita spirituale delle detenute: una dozzina di animatrici spirituali e un pastore sono impiegati come funzionari, alcune sono delle guardiane che volevano essere più utili alle 650 detenute.

 

La prima differenza che mi ha colpito tra il carcere di massima sicurezza delle donne e quello degli uomini è che qui si possono vedere, al di là dei muri e degli alberi, le case dei vicini e la città in lontananza, perché il terreno è in pendenza. I blocchi sono piccoli, bassi, ravvicinati, separati da erba. All’ingresso lasciamo i telefonini e le borse, ma non veniamo perquisiti come presso il carcere degli uomini. Dobbiamo costeggiare tre o quattro blocchi su un marciapiede di cemento, lavato ogni mattina con tanta acqua, per raggiungere in fondo al cortile le aule circondate da un lato da un piccolo appezzamento coltivato a ortaggi e piante officinali, dall’altro da un campo di pallavolo. Come un arbitro, la sentinella ci controlla dall’alto del suo punto di osservazione di lamiera ondulata, come pure le scimmie, ma esse sono molto più vicine e offrono un diversivo alle ospiti divertendosi sui tetti coi loro piccoli. Mandela ha detto una volta che la prova più difficile per lui in carcere è stata vivere per anni senza vedere bambini. Qui ce ne sono una cinquantina, uno è nato il giorno di Natale. Le loro risate, i loro giochi, i loro sorrisi rendono umani i luoghi. Quando hanno quattro anni devono separarsi dalle madri e andare a vivere con un parente o in un centro per bambini. Alcune mamme preferiscono affidare il loro bambino alla nonna perché qui sentono ‘cose cattive’. Hanno una bella scuola materna al di fuori del carcere e la sera tornano ‘a casa’, dove le loro madri li ricevono in due camerate. Durante una Messa mi trovo dietro una ragazzina che acchiappa nell’aria degli oggetti invisibili e li getta di lato. E’ tutta assorta nel suo mondo immaginario. E’ ‘a casa sua’ come lo erano i bambini nomadi che si spostavano ogni giorno, ma trovavano sempre le stesse cose agli stessi punti cardinali.

 

Per introdurre il mese di ritiro nel carcere femminile, la Comandante degli istituti di pena della regione è venuta di persona a spiegare alle prigioniere come le era venuta l’idea. Durante un viaggio di studio in Svezia, aveva visitato un ‘monastero in carcere’ e si era detta: “Se è possibile in Svezia, perché no nel nostro Paese?”. Al ritorno ha convocato il cappellano carcerario nazionale cattolico per dirgli che, essendo lei protestante, non sapeva nulla della vita monastica e che spettava a lui lanciare l’iniziativa. Quando a sua volta lui ne ha riferito all’animatrice spirituale delle cinque carceri della capitale, questa piccola donna dinamica non ha perso tempo: ha contattato degli psicologi, dei pastori e il nostro centro di spiritualità ignaziana. E rapidamente è stato organizzato un ritiro spirituale di un mese per 53 cattolici condannati all’ergastolo o a morte. Il suo sogno sarebbe poi di riunirli in un unico blocco dove per due anni potrebbero organizzare la loro ‘vita monastica’. Dopo questa esperienza positiva, lei ha risposto all’appello partito anche dalle donne, ed è per questo che 36 tra protestanti e cattoliche vengono esonerate da tutti i lavori per un mese e si ritrovano ogni giorno nell’aula dalle 8:30 alle15:30.

Dopo la partenza della Comandante chiedo alle donne se sanno cos’è un monastero. Le cattoliche non sono più informate delle protestanti. Spiego che si tratta di un gruppo di uomini o donne che decidono di vivere insieme secondo il Vangelo: si danno una regola, dei leader cui obbedire, pronunciano i voti di povertà, castità, stabilità, non escono dal loro ambiente a meno che non vengano inviati altrove, hanno una divisa, dormono in celle o in dormitori… Alla fine chiedo qual è la differenza tra un monastero e una prigione. Tutte ammettono che anch’esse hanno da seguire regole, scritte e non scritte, da obbedire ai capi, da indossare una brutta divisa che assomiglia a una camicia da notte, da dormire in una trentina insieme, con celle riservate alle recalcitranti da punire con l’isolamento. Sono tra donne, anche se alcune guardie sono uomini, e lasciano il carcere solo per andare in ospedale o in tribunale. Ma una piccola grassottella fa notare che loro non hanno scelto di essere lì – tacito consenso nella stanza – e la sua vicina aggiunge che se sono recluse non è perché hanno scelto di seguire Gesù, ma piuttosto perché non l’hanno seguito.

 

Io domando loro: “Secondo voi è più facile essere santi in prigione o fuori?”, e la metà risponde in coro: “In prigione”. Altra domanda: “Per voi cosa può significare questa frase difficile: ‘ Qualcuno non è libero perché fa ciò che vuole, ma perché vuole ciò che fa?’”.  Con mia grande sorpresa una risposta arriva subito: “Mi hanno mandata a lavorare nel laboratorio di cucito; avrei potuto andarci trascinando i piedi, ma ho visto la possibilità di imparare un mestiere e ora sono orgogliosa di fare del design. Anche in prigione si può crescere”. Una nonna dice che da adolescente aveva cinque amiche. Sono tutte morte di AIDS, incidenti, uccise o per malattie. Se lei fosse rimasta nel mondo di fuori, avrebbe potuto essere coinvolta in reati più gravi. Qui le è stata data la possibilità di trovare un senso alla sua vita. La guardo con stupore: dopo anni di maltrattamenti in carcere, come può dire ciò senza acredine? Un’altra mi confiderà: “Sono stata ‘colta sul fatto’ all’aeroporto, mentre ero in transito, dopo essere stata a seppellire mia sorella in Asia. Dopo ore di attesa, mi hanno portato la valigia, aperta, con della droga dentro: condannata a vita. Sono in prigione da quattro anni, ma non sono imprigionata, io sono molto più libera nel mio cuore rispetto a molti che sono ‘fuori’. Ho imparato molto qui: il cucito, la teologia, ho partecipato a numerosi seminari, ho imparato a conoscermi, ad avere stima di me; non ho molto, quasi nulla, ma non lascerò questo mondo nuda come ci sono entrata. Non ho abiti eleganti e neppure adatti, ma la vera bellezza di una donna e la sua dignità non vengono dai suoi vestiti. Quando finalmente potrò fare appello e ritornare al mio paese, potrò condividere con i miei figli quello che la vita mi ha insegnato qui. Non sono anni perduti”. Come non sentirmi piccolo e privilegiato davanti a questa Saggia dai lineamenti delicati che mi offre con la sua voce dolce ciò che l’Università-prigione le ha insegnato di Filo-Sofia! Mi viene in mente una frase di G. Thibon piantata nella mia memoria di adolescente: “La sofferenza non è un paese piatto: essa abbassa alcuni e innalza altri”.

Infine spieghiamo come si svolgerà il mese: la prima settimana ha lo scopo di rispondere alla domanda: “Chi sono io? Chi ero prima di entrare in prigione? Chi sono io in prigione? Chi voglio essere?”. Allo stesso modo nella seconda settimana prenderemo in considerazione le nostre relazioni. Sulla base del Principio e del Fondamento degli esercizi spirituali la terza settimana darà spazio alla meditazione sull’amore con cui Dio ci ama e a una riflessione: come rispondo io a questo amore? L’ultima settimana è  un po’ speciale: in aula il  gruppo mediterà sulla  vita di Gesù e fuori ciascuna avrà l’opportunità di incontrare quotidianamente una delle sei ‘guide spirituali’, tre uomini e tre donne del centro di spiritualità ignaziana. Sono dei laici che hanno ricevuto una formazione di tre anni e che possono contare su una buona esperienza di parecchi anni. Hanno accompagnato singole persone e gruppi nelle parrocchie, nelle scuole, nelle ONG e ora nelle carceri.

 

Io sono il responsabile dell’organizzazione delle ultime due settimane. Cominciamo con una liturgia in cui si legge il profeta Ezechiele e la promessa di cambiare i nostri cuori di pietra in cuori di carne. Ciascuna depone davanti all’icona di Gesù una pietra che simboleggia ciò che sta pesando nella sua vita, ciò di cui chiede di essere liberata. Rimarranno là fino alla fine del ritiro; allora alcune ci diranno tutto il peso che queste pietre rappresentano nella loro vita. Sul muro è scritto, cosa che San Paolo ripete in molti modi ma che contraddice la nostra visione di un piccolo dio distributore di ricompense e di punizioni: “Dio non ci ama perché le nostre azioni sono buone, ma perché Lui è buono”. Ho notato come negli uomini, che l’hanno citato spesso, questo messaggio sia portatore di speranza quando la memoria è piena di azioni non molto ‘buone’. Dio ‘punisce’ mostrandoci un amore più grande. (Osea 11, 8-9).  Presso Simone la donna non è perdonata perché ha molto amato ma lei ha molto amato perché sa che è accolta, rispettata, perdonata. (Luca 7; 47. Luca 19; 8). Abbiamo anche sperimentato con gli uomini come entrassero bene in una preghiera molto scarna, silenziosa, immobile, dove ciascuno può stare solo con se stesso e incontrare la Sorgente della Vita, dove ogni respiro ci ripete che Dio nel suo amore ci sceglie ancora una volta, e ancora e ancora. Siamo in due, a volte con una pastora, ad animare ogni giornata e ci accompagna un’animatrice spirituale del carcere.

 

Appunti presi durante una condivisione alla fine della quarta settimana:

“Ho imparato a pregare in silenzio: ho parlato molto nelle mie preghiere, ora so che Dio ascolta il mio cuore”.

“Ho scoperto che possiamo perdonare anche qualcuno che è morto. Per anni ho portato un rancore pesante come una pietra”.

“Faccio fatica a controllare la mia rabbia. La mia guida mi ha suggerito qualche ‘trucco’”.    

“Ora so che Dio non si stanca di perdonare, anche a me!”.

“Il perdono dà una libertà che io non avevo conosciuto da molto tempo”.

“Sono in carcere, la cosa più dolorosa è essere lontana dai miei figli, ma io sono sempre la loro mamma”.

“È stata un’occasione unica di essere ascoltata, di aprire il mio cuore, di dire ciò che non avevo mai detto a nessuno”.

“Anche in carcere ci sono ogni giorno ragioni per ringraziare. E, se prendo l’abitudine di ringraziare, la giornata è più bella”.

“Le carcerate hanno la stessa dignità delle contadine, delle cantanti o delle guardiane: ricevono il Corpo e il Sangue di Gesù”.

 

Per chiudere il ritiro spirituale era prevista una breve visita della Direttrice del carcere. E’ rimasta con noi quasi tre ore! Grande, sportiva, dal parlare franco, ha chiesto alle nostre amiche se volevano condividere qualcosa della loro esperienza di ritiro spirituale. Furono molte quelle che presero la parola.

Lucia (nome fittizio) è una giovane timida; le è andata storta. Il suo ‘amico’, che lei pensava fosse un poliziotto perché aveva un’arma, si è rivelato essere un malvivente e lei è stata arrestata dai poliziotti che lo avevano ucciso. E’ arrivata giovane in carcere, ma la sua famiglia l’ha rinnegata: non ha visite. Spiega che, senza le visite, a una carcerata mancano spesso il sapone, la carta igienica. Non ha soldi per comprarsi della crema per la pelle e al suo posto usa sapone. In queste condizioni, si è tentati di farsi pagare per delle prestazioni sessuali. Vorrebbe cambiare di blocco per poter cambiare vita. La Direttrice prende nota.

Una donna sulla cinquantina è stata arrestata perché suo figlio ha nascosto in casa sua della merce rubata. Lui è libero e lei è rinchiusa qui da anni. Aveva giurato che non lo avrebbe più voluto vedere. Ora ha capito che rifiutare il perdono fa più male a lei che a lui. Si è portata abbastanza a lungo nel cuore tutta questa acredine. Ora non solo vuole perdonarlo, ma vuole anche incontrarlo per potere riconciliarsi. Per questo avrebbe bisogno di stare con lui tutto il tempo necessario. La Direttrice prende nota.

Julie, le cui unghie dei piedi sono ricoperte di vernice blu, ha rapinato il negozio di una donna del villaggio. Ora vorrebbe poterle parlare, chiederle perdono. Senza di ciò, se un giorno ritornerà al villaggio come potrebbe vivere in pace?

Gli stessi sentimenti esprime un’altra che in un momento di rabbia ha piantato il coltello nella pancia del marito.

Una donna col foulard in testa, ben avvolto all’africana, dice di essere stata arrestata per storie di traffico di droga. Il fratello che le era più vicino è passato diverse volte a … ma non è mai venuto a farle visita. Era molto arrabbiata con lui. Ora vuole credere che lui abbia le proprie ragioni e chiede di potergli telefonare per riprendere il rapporto.

Una giovane dalle guance pienotte spiega che l’anno prossimo sarà rilasciata e vorrebbe imparare un mestiere prima di uscire dal carcere. La Direttrice osserva che un anno è un po’ poco per imparare a cucire, quindi lei imparerà a cucinare …, … (cucina indiana), torte …

Esther ha le labbra tinte di un rosso discreto, e due lettere scarlatte sul vestito: ‘PP’, cioè ‘a Piacere del Presidente’, (solo il Presidente della Repubblica può ridurre la sua condanna). Lei vorrebbe far capire alla Direttrice che dovrebbero esserci più telefoni pubblici perché spesso, quando si vuole telefonare, si fa la coda e si va via senza successo perché c’è troppo affollamento.. così si è tentati di procurarsi un telefono cellulare, che è vietato. Va detto che più volte al giorno tutte le attività si fermano per contare le detenute e che di tanto in tanto un blocco viene perquisito: le donne devono spogliarsi, il dormitorio, i letti, le borse sono ispezionati senza tanto riguardo e, se viene trovato qualcosa di vietato, tutti hanno il diritto di sculacciare l’interessata con tubi di plastica. Poi la colpevole deve affrontare anche le colleghe detenute!

Rachel è una giovane donna di circa trent’anni. Per quale combinazione di circostanze è diventata capobanda? Io non lo so. Il suo volto è segnato, capelli corti, senza trucco. Non è bella, ma ha personalità. Comincia col dire alla Direttrice che non c’è nulla di proibito in carcere che lei non abbia fatto: ha fumato marijuana fin dalla scuola elementare e fino alla settimana scorsa, usa di nascosto un telefonino, ha tagliato i fili elettrici sopra il soffitto per ricaricarlo, ha dei partner sessuali … E aggiunge: “Siccome noi non andiamo nei negozi, quello che abbiamo lo otteniamo dalle custodi”. Dei singhiozzi le impediscono di continuare, si alza e se ne va, seguita da una guardiana. Silenzio incredulo nella stanza. Poi una donna commenta: “Se può pentirsi Rachel, chi non lo può?” Quando Rachel torna, tende alla Direttrice un pacchetto di marijuana, un accendino e un telefonino e riprende il suo posto. Una donna rompe il silenzio e si rivolge alla Direttrice: “Signora, bisogna cambiarla di blocco, come può Rachel iniziare una vita nuova se rimane coi suoi clienti di droga e di sesso?”. Grandi applausi. Va detto che il vestito di Rachel porta due grandi lettere rosse: ‘SW’. Io credevo che avesse a che fare con il servizio sociale (Social Work), ma no, è semplicemente che lei è rinchiusa nella prigione della prigione: il Blocco Speciale (Special Ward), dove si tengono in disparte i ‘casi difficili’. La Direttrice prende appunti. Dopo una pausa, una donna si rivolge a Rachel: “Non sarà facile, amica mia. Anch’io sono passata di là. Anch’io avevo un telefonino che ci faceva tremare tutte quando suonava inavvertitamente. Mi sono detta: ‘Anche se vi è una situazione di emergenza in casa, non sono certo io che sarò in grado di aiutare; posso anche attendere di andare al telefono pubblico come tutti gli altri’ . ’Fumavo’ e mi sono detta: ‘Che posso dire ai miei figli se io stessa sono schiava della droga?’ . Bisogna che tu ti armi di pazienza: ci sono notti in cui vorresti chiamare casa, ci sono momenti in cui sarai tentata da una sigaretta. E poi i tuoi clienti per la droga si rivolteranno contro di te e anche le guardiane che te la vendevano diventeranno tue nemiche. Sii forte e tieni botta”. Applausi. Una vicina conclude: “A Dio nulla è impossibile!”.

Dopo aver ascoltato pazientemente, alla fine la Signora chiede chi era quella che pregava per Rachel – ogni esercitante aveva ricevuto il nome di un’altra che portava segretamente nella propria preghiera. A quella che alza la mano domanda di quale blocco sia e ordina che Rachel venga trasferita nello stesso blocco. Lunghi applausi. Ma qualcuno intercede per delle altre che sono pure nel Blocco Speciale. Infine cinque saranno trasferite. Commenti allegri e rumorosi. “La prigione non è solo un luogo di pena – commenta la Signora – ma anche di correzione, che prepara le donne a riprendere il loro posto nella società. Si terrà dunque una giornata di riconciliazione dove le dieci che l’hanno chiesto potranno incontrare per tutto il tempo necessario coloro con cui si vogliono riconciliare e coloro che desiderano trascorrere qualche ora con i propri figli sotto i 18 anni potranno farlo nella scuola materna”. Ululati! (Il verso tipico che fanno le donne africane dimenando la lingua fra le labbra socchiuse -NDT). Poi la Signora le incoraggia a fare esercizi fisici, a scegliersi bene le amiche, a sostenersi a vicenda, a formare gruppi per il tempo libero per fare un giardino, dei gioielli, dello yogurt che possono vendere, ma anche a essere ambasciatrici di pace, a incoraggiare quelle che non erano al ritiro, a essere mentori per le nuove arrivate. Aggiunge che bisognerà organizzare un ritiro spirituale anche per le custodi … “Segnalate alle catechiste quelle che ne hanno più  bisogno”. Poi, per rilassarci dopo queste ore dense e impegnative, ci invita a gridare tutti insieme … e tutte insieme producono più decibel di quanto le mie orecchie sensibili possano sopportare!

 

Come si conviene, una settimana dopo la fine del ritiro viene organizzata una grande festa. Erano presenti gli animatori, le esercitanti, la metà delle prigioniere e un ospite d’onore, un pastore coreano (mi sembra), che non ha mai tolto il berretto blu, ma che ha offerto a ciascuno dei libretti per studiare tutti i giorni la Bibbia. Potevamo fare delle testimonianze, dei discorsi, dei sermoni, dei canti, delle poesie insieme a un servizio protestante della Santa Comunione. Viene inoltre data la comunicazione che dopo la fine del ritiro spirituale tre delle esercitanti sono state rilasciate.

Rachel viene invitata a condividere qualche riflessione su questa sua esperienza. Oggi indossa un vestito nuovo in cui le lettere rosse SW sono state sostituite da un piccolo quadrato verde – le nuove o quelle che meritano spesso punizioni portano un quadrato rosso, le più anziane e ben disciplinate portano un quadrato blu e le intermedie un quadrato verde –

Lei inizia con esitazione: “Non so cosa dire, non ho mai parlato in pubblico … Questo ritiro era per me. Non ci volevo venire e la mia amica mi ha detto: ‘Non hai nulla da perdere’. Così ho deciso di assistervi per due giorni. Sono ben conosciuta nella prigione per il comportamento ribelle e non potevo credere che il mio cuore potesse diventare ‘morbido’. Ora non temo nulla perché sono un’altra Rachel. Stento a crederci io stessa … avevo quattro automobili. Davvero per Dio non c’è nulla di impossibile. Sono stata picchiata molto spesso dalle guardie, ma ciò non mi ha cambiata per niente. Ma per Dio nulla è impossibile. Lo so bene che non è con le mie sole forze che posso resistere. Dopo pochi giorni di ritiro, una mattina ho deciso di non continuare. ‘Cosa può portarmi di buono?’ – pensavo. Ma la mia amica fu tenace: ‘Se hai resistito una settimana, puoi ben resisterne un’altra!’. Ho parlato molto con la mia guida spirituale: ‘Sta a te decidere che tipo di vita vuoi condurre, quale persona vuoi essere’- mi diceva. Ma nel mio blocco altre carcerate dicevano: “Una volta che si è messo il dito nella merda, è lo stesso che metterci due mani “, in altre parole: “Se sei una criminale, non c’è altro percorso per te”. La sua voce è meno ferma; due animatrici spirituali si avvicinano per incoraggiarla. Lei continua: “Mi sono dibattuta a lungo, è stato solo l’ultimo giorno del ritiro che mi sono abbandonata a Gesù. Conto sulle vostre  preghiere e sul vostro incoraggiamento perché Satana ha perso una cliente di peso. Ora voglio vedere mia madre e riconciliarmi con lei; l’ho fatta molto soffrire”. Ha concluso la sua testimonianza cantando un inno con la sua amica. Si tratta di paura, rabbia, reclusione, di ‘chi sono io?’, di perdono, di crescita, del passato che bisogna lasciar andare… e poi la sua conclusione (San Paolo non avrebbe detto meglio: 1 Cor 15, 10): “Ora per la grazia di Dio, io sono quella che sono”. Tra l’uditorio molti occhi sono umidi. Le due animatrici spirituali l’abbracciano a lungo e un coro intona un canto composto dalle esercitanti: ‘Che tipo di persona sei? Che tipo di madre?, di sorella?, di figlia?, di prigioniera? Chi scegli di essere? Tu vali agli occhi di Dio. Ritorna a Lui; il tuo nome non è ‘ladra’, ‘killer’, ‘scassinatrice’, il tuo vero nome è inciso sul palmo della Sua mano (Isaia 49, 16), il carcere non è un luogo di tortura ma di riabilitazione’.

  

Dieci giorni prima, quando meditavamo la Passione facendo il confronto con le loro esperienze di arresto, di detenzione al commissariato, di sentenza, una di loro fece questo commento: “Dopo 2000 anni nulla è cambiato: la polizia e le guardie ci colpiscono sempre come hanno colpito Gesù! E’ da credere che non cambieranno mai”.  Ora lei viene a testimoniare: “Questa è la prima volta che parlo davanti a tante persone, ma il ritiro spirituale mi ha cambiata. Non osavo guardarmi allo specchio, avevo vergogna di me stessa. Anche durante il ritiro ho usato la marijuana. Ho fatto abomini … Oggi so che Dio non può dimenticare sua figlia, so che Egli è ancora mio Padre. Ora mi posso guardare allo specchio, posso perdonare, posso parlare ai miei figli; sì, sono in prigione, ma loro non avranno altra mamma che me”.

Anch’io devo fare il mio piccolo discorso e dico alle donne: “In questi giorni voi siete state le mie maestre spirituali. Mi sento molto umile davanti a voi, non sono mai stato tanto lontano quanto molte di voi sulla via del perdono. Qui ho visto miracoli. E’ più facile far correre un malato che cambiare un cuore di pietra in un cuore che ama e perdona. E’ più facile fare una cospicua elemosina che dire ‘perdonami’ a colui che con la sua accusa mi ha portato dietro le sbarre”. Ho sentito qui lo stesso Soffio di Thibirine (località algerina dove sette monaci furono rapiti e uccisi durante la guerra civile che seguì al colpo di stato -NDT): ’Tu ci comandi le regole dell’Amore crocifisso. I nostri nemici, tu li liberi dalle nostre mani aperte in preghiera. Tu confidi nel Perdono, nella forza del tuo Spirito di verità per inserirlo nella storia (dell’Algeria)’ (fratello Christophe – uno dei sette). Mi sento un po’ come un novizio nella vita spirituale davanti ad alcune di queste donne che sono in grado di perdonare anche se sono state accusate ingiustamente, davanti a quelle che sopportano i trattamenti umilianti delle guardiane senza diventare inacidite o vendicative, davanti a quelle che devono vivere con dei ricordi orribili perché hanno ucciso il loro padre o la loro rivale e non sono schiacciate dal loro passato, ma in grado di vivere al meglio il presente e di proseguire gli studi … Come ha detto Papa Francesco ai prigionieri messicani: ‘Colui che ha sofferto l’’inferno’ può diventare un profeta per la società’.

La festa si conclude con la trasmissione del cero, ricevuto in dicembre dal carcere maschile, a un catechista della grande prigione (3.000 detenuti maschi), dove si terrà un ritiro spirituale dopo Pasqua. Ciascun invitato riceve una o due esercitanti da portare con sé nella preghiera.

Come previsto, la giornata si conclude con un banchetto nel blocco amministrativo, al di fuori del carcere, dove ci accompagnano anche tutte le esercitanti.

Prendo un minibus e le mura della prigione si allontanano. Nel centro della città osservo due donne disabili che si fanno trasportare su carriole al loro posto di accattonaggio. Non in grado di camminare, ma libere di muoversi dove vogliono. Al ritorno al nostro quartiere, sento una voce infantile: “Adesso te le do!”, quello che le mamme spesso dicono ai loro figli indisciplinati. E vedo una ragazzina che colpisce i polpacci della sua sorellina con un sacchetto di plastica vuota. Quest’ultima ride forte sapendo che dopo cinque colpi verrà il suo turno di ‘carnefice’. Quante ragazzine di qui saranno un giorno nella prigione come guardie, armate di un tubo di plastica o come detenute con i segni dei colpi subiti? Accompagno la mia tazza di tè con una fetta di pane, un sogno per le mie sorelle del mondo carcerario!