Le libertà in occidente, Sciacca, Fabrizio (a cura di)
I saggi qui raccolti da Fabrizio Sciacca – frutto dell’ultimo ciclo del J. Monnet European Module “Human Rights and European Identity”- intercettano su di una traiettoria interdisciplinare dotazioni residue di senso e prospettive del discorso liberale in Occidente. Il valore aggiunto di questi contributi è dato dal modo con cui temi e problemi tradizionali o ampiamente dibattuti – le declinazioni della libertà, ma anche la tolleranza, il multiculturalismo, la neutralità etc. – sono oggettivati nei diversi ambienti teorici in modo originale e senza presunzioni dogmatiche. Il lettore viene così accompagnato nello spazio aperto di una riflessione che fa vibrare più di una corda della sua coscienza civile.
Nella sua circostanziata analisi, Raimondo Cubeddu – attingendo al pensiero politico tomista e liberale – fa emergere, in antitesi rispetto ad altri teorici (cfr. pp.28-29), la mancata coincidenza tra diritti umani contemporanei e diritti naturali, per intrecciare un giudizio sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo. Si sottolinea la trasformazione dei diritti da «borghesi» a «sociali», questi ultimi informati alla riconosciuta sovranità del popolo (p. 28). Su questa direttrice il consecutivo approdo agli Human Rights tradisce il distacco dalla cornice lockeana tripartita, nella misura in cui il titolo della «proprietà» risulta messo tra parentesi mentre – delegati gli stati e le organizzazioni internazionali a tutelare i diritti universali – sfuma la fisionomia originaria dell’individualismo liberale. Gli Human Rights emergono viepiù – rispetto ai diritti liberali – pullulanti di significati astratti o tra di loro talvolta contraddittori e segnati da un indeterminato relativismo.
Riguardo alla Dichiarazione, la cornice classica risulta del pari sopravanzata per il concorso di Maritain, il cui finalismo tomista salda i diritti umani alla legge naturale, astraendoli tuttavia dal quadro lockeano dei Natural Rights per collocarli entro la tradizione cristiana (cfr. p. 33) e individuare corrispondenze «altre», come quella tra «diritti individuali» e «bene comune» (p. 36).
Il fil rouge – e insieme la suggestione densa di questa disamina – è l’idea che i diritti di vita, libertà e proprietà rappresentino ancora un nucleo in sé capiente e non dispersivo, funzionale a comporre la realtà umana riducendo i conflitti, senza «proiettare il passato sul presente e ancor meno sul futuro» (p. 39).
Corrado Del Bo – attraverso congrui riferimenti alle pronunce italiane – ricolloca, a monte del presupposto di laicità dello stato rispetto alla delicata questione religiosa in ambiente multiculturale – e dunque alla base dell’«equidistanza e imparzialità» (p. 41) delle norme rispetto alle diverse dottrine – l’idea di «neutralità liberale». Essa si dà in particolare come «neutralità degli effetti», in aderenza ad uno stato che «non deve avvantaggiare» alcuna confessione «nei fatti, in termini cioè di effetti della propria azione» (p. 44). Nel descrivere alcune occorrenze di questi «vantaggi», tanto economico-materiali (in relazione per es. all’esenzione dal regime fiscale INVIM) quanto politico-culturali (la questione dell’inserimento della religione nel curriculum scolastico), si affronta la strisciante obiezione di impraticabilità di tale neutralità, se l’astensione della «scelta» pubblica è subordinata in linea di principio alla presenza di contesti di eguaglianza approssimativa di opportunità o di esiti(p. 52).
E’ allora possibile circoscrivere – sulla scia del distinguo tra atti e omissioni di J. Carter – ambiti del «richiedere neutralità dello stato», inteso come «esigerne il non intervento» (p. 55), così come spazi di giustificazione (neutrale) dell’agire politico (ricca di spunti, al riguardo, la prospettiva sull’apertura domenicale dei negozi e sul giorno festivo scolastico, cfr. pp. 53-58).
Al di sotto di queste descrizioni la neutralità emerge come modo della refrattarietà alle politiche di privilegio, rispetto alle singole confessioni religiose.
Dal «fatto» della multiculturalità, Maria Laura Lanzillo sviluppa un discorso sulla teoria e la prassi politiche – soprattutto europee – in pieno deficit di elaborazione del progetto moderno. Entrato in crisi l’ideale di sicurezza e coesione sociale dello stato-nazione, concetti quali sovranità, libertà, uguaglianza e così via – prova ne è il sofferto iter normativo che va dall’abortita costituzione europea al trattato di Lisbona – faticano ad abbracciare una eterogenea alterità al di fuori della «neutralizzazione astratta delle differenze» del liberalismo da Locke in poi (p. 75). Di un multiculturalismo che – politicamente – è causa di «un discorso in trappola che si attorciglia su se stesso» (p.79), Lanzillo evidenzia con efficacia il limite del farsi vessillo tanto dell’universalismo occidentale quanto del fondamentalismo, entrambe ideologie in affanno rispetto ad una giustizia sociale avversa alla marginalità.
Attraversa Lanzillo sia lo spazio politico riservato ai gruppi dai comunitaristi (con Ch.Taylor), sia quello ritagliato per l’individuo dai “liberali perfezionisti” J. Raz e W. Kymlicka e, ancora, descrive alcuni modelli teorici europei. Richiama infine una serie di interpretazioni recenti del multiculturalismo: dal «monoculturalismo plurale» di A. Sen, ai discorsi «ibridisti», fino alle antropologie del «meticciato» e del «creolismo».
La critica – rispetto in generale a questi discorsi – investe un «noi» statuale o comunitario che – con effetti deleteri sull’autoaccertamento stesso del concetto di libertà – si impone sul resto degli interlocutori, invece di assumere la «forma della differenza» (p. 83) e levarsi «oltre» se stesso.
Fabrizio Sciacca rintraccia nel correlato tra la tolleranza – colta sia nella radice antropologica sia nella struttura logica – e la «libertà» particolare di «odiare» uno dei problemi sostanziali della coeva democrazia liberale.
La tolleranza si dà in termini di adattamento culturale rispetto a concezioni del bene e del giusto, traducendosi del pari in un minore gradimento rispetto a «ragioni» estranee alla concezione di vita «che mi costituisce (…) come la persona che sono» (p. 85); ad essa si attagliano giustificazioni deontologiche (nel senso di Rawls, basate su principi e in un’ottica di reciprocità) o teleologiche (informate alla ponderazione di utilità e danno), ma il distinguo fondamentale è che «noi tolleriamo fatti, non valori» (p. 87) – «fatti» dotati di una certa rilevanza pubblica e «la cui visibilità è resa davanti ai nostri occhi»(p. 87). Così che l’oggetto della tolleranza si dà per sottrazione rispetto a quanto si giudica «intollerabile» – e invero in maniera non del tutto razionale, data l’influenza della variabile emozionale (p. 90).
La parte più stringente della disamina riconduce il concetto all’asserzione coerente che non dobbiamo necessariamente amare ciò che tolleriamo e che l’odio di per sé non rappresenta un impedimento alla libertà altrui(p. 91), per cui la tolleranza e la libertà di odiare – sotto il profilo logico – non si escludono vicendevolmente. Cionondimeno emerge l’urgenza pratica di una delimitazione accorta di quegli spazi «regolati da leggi» che inibiscono il passaggio dell’odio da sentimento a movente di violenza fisica o politica e consentono l’esercizio di una tolleranza non ipocrita perché espressione oltre che di libertà di pensiero, anche di diversità di vedute.
Vincenzo Maimone descrive le gated communities: «secessione civica»(p.125) indotta dal bisogno di sicurezza, realtà degli Stati Uniti – ma non solo – fin da prima delle Twin Towers, forma di convivenza sociale e insieme modello urbanistico autoisolazionista, per gruppi omogenei sul piano sociale, economico o razziale, con aspettative uniformi sui servizi essenziali.
Seguendo il paradosso incarnato dal principe Prospero di Poe – capo di una comunità di gaudenti che per fuggire un’epidemia si autoreclude – viene attraversata con acutezza – oltre che l’erosione dello spazio collettivo – la crisi di tre concetti: intanto nei nuclei ristretti e ipersorvegliati perde in spessore l’idea classica di comunità. E ciò perché a un «comune modo di sentire che si manifesta nella definizione di valori condivisi» (p. 127), si sostituisce una scelta associativa tanto spontanea quanto opportunistica e senza autentica partecipazione (e il «popolo dei Weight Watchers» di Bauman incarna qui un’efficace metafora – pp.128-129).
La nozione di cittadinanza democratica cade poi in discredito, data la connivenza ambigua tra democrazia e pratiche di esclusione degli «altri», mentre si disperdono i legami tradizionalmente fondati su di un contratto sociale «tra cittadini liberi ed eguali» (p.131).
In ultimo anche l’ideale liberale in senso classico viene travisato perché – ci si chiede – come possono coesistere al di sotto di questo modello di convivenza, senza contraddizione, il conservatorismo, la restrizione della volontà soggettiva e i diritti individuali?
Antonio D’Agata sonda il legame tra diritti e attività economica di una società, in concorso con il problema dell’efficace allocazione delle risorse e a partire dal divario fra entità dei bisogni materiali e beni garantiti dal processo produttivo. I diritti di monopolio, contrattuale, dei brevetti, financo il «diritto» regolato da leggi di una impresa ad inquinare sono al centro di una ricostruzione della logica economica, mentre con l’ausilio di rappresentazioni grafiche e casi empirici si stimano valore soggettivo dei beni ed aspettative di benessere materiale dell’individuo. Si dà conto delle conseguenze attese in regime di mercato (di concorrenza perfetta o imperfetta) e degli effetti che l’attività economica di un agente produce sul benessere di altri non coinvolti direttamente (cfr. pp.141-149), ma si distende del pari una lettura puntuale, analitica e avalutativa sotto il profilo morale, volta ad una «progettazione delle norme giuridiche» economicamente «ottima» (p. 153-155) – dunque funzionale all’allocazione ampia delle risorse – per delimitare il piano dell’intervento diretto delle istituzioni.
Se emerge un ventaglio di ragioni pertinenti con la libertà di operare in senso strettamente economico, cionondimeno si profilano in lontananza spazi dialettici tra questo particolare ambiente e le libertà «altre», fondamentali dell’uomo, quelle che si sottraggono in tutto o in parte alla logica quantitativa.
Marisa Meli – con gli strumenti del diritto comparato – scompone la costruzione dell’identità europea nella ricezione dei diritti fondamentali della persona da parte dei sistemi giuridici e nella traduzione della peculiarità del modello sociale europeo.
Se i singoli ordinamenti attingono sotto il profilo giuridico alla cosiddetta western legal tradition e se si distingue tra modelli legislativo inglese, dottrinale tedesco, giudiziale inglese o tra civil law e common law – puntuale in questo senso la sinossi proposta (cfr. pp.166-173)- la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce la soggezione degli stati contraenti al diritto internazionale e la facoltà dei singoli di ricorrere presso la Corte. Mentre la Carta di Nizza – con la piena autorità acquisita entro il trattato di Lisbona – riscrive i diritti fondamentali, influenza il diritto interno degli stati aderenti e rende più tangibile il «condividere un futuro di pace fondato su valori comuni» (p. 175). Una direzione importante, al di là delle resistenze – di cui si dà peraltro conto – al costituirsi dell’identità europea, emergenti da atti quali il protocollo di Polonia e Regno Unito in deroga al dettato CEDU.
Meli riflette inoltre sulle potenzialità del modello sociale europeo, riflesso in una normativa comunitaria che, pur fedele alla politica del liberalismo di mercato, guarda ad obiettivi di sviluppo sostenibile e di coesione sociale.
Si scorge – tra andirivieni normativi, imperativi di mercato e istanze sociali – al di sopra della spalla degli ordinamenti dei singoli stati, un’apertura alla libertà come cooperazione, entro il lento assorbimento dello spirito europeo.