L’ULTIMA FOTOGRAFIA – BOGDAN HRIB
Dopo un matrimonio conclusosi con un divorzio e alla soglia dei cinquant’anni, l’ex fotoreporter Alexandru Zaharia decide di partire per una crociera alla volta di Città del Capo.
Malgrado non lavori più nel ramo della fotografia, egli porta con sé l’inseparabile reflex e una lista di cinquanta parole. Cinquanta, proprio come le sue primavere. Parole che si susseguono una dopo l’altra tra le pagine di questo romanzo abilmente narrato in prima persona, in un’eco di ricordi, emozioni, speranze, desideri, ma anche dolore, nostalgia e frustrazioni.
Un viaggio per voltare pagina, ma invece di respirare l’odore dell’oceano, si respira il passato. Un passato quanto mai autentico: il periodo comunista, i cambiamenti sociali, economici, culturali.
Il romanzo è una miscela socio-culturale, vissuta in prima persona da Alexandru, e in terza persona da Diana, una vecchia amica d’infanzia del protagonista, da molto dimenticata. L’azione è spesso apparentemente statica, quasi a riflettere la calma del mare; poi prende colore e si anima grazie ai racconti dei personaggi. Il ritmo del romanzo accelera man mano che ci si avvicina al finale, e Hrib accompagna il lettore, attraverso questo crescendo, verso il colpo di scena definitivo.
“L’ultima fotografia” spazia tra argomenti diversissimi, affrontati con grande talento narrativo accompagnato da uno stile spesso sintetico e asciutto, definito addirittura “cinematografico”.
Un viaggio, un’occasione di riflessione e riscoperta di sé.
L’ULTIMA FOTOGRAFIA – Estratto capitolo 46
© Traduzione Sara Salone
PORTO
Una parola meravigliosa, rotonda. Elegante. Con delle belle lettere, curve e linee dritte. Solo cinque lettere. Splendido. Sto delirando…
I porti sono lo specchio delle città, uno specchio con due facce, una sul mare, una sulla terra. Ho visitato la Danimarca, ho passeggiato lungo gli stretti moli dalle decine o centinaia di imbarcazioni ancorate e sono giunto alla conclusione che i Danesi sono un popolo che non si sente a suo agio sulla terraferma, come se per essi ogni città fosse solo un rifugio, uno scalo, una tappa. Anche gli Inglesi sono così. I Portoghesi. E altri. Forse… E Caja?
Non ne posso più e nemmeno ne ho voglia. Non voglio pensarci oltre, desidero solo lasciare carta bianca al destino…
Attraccheremo a Città del Capo.
Non ho nessun aneddoto sui porti. Avevo un amico ricco, proprietario di una barca sul lago Snagov; mi ha invitato molte volte, ma non ci sono mai andato, mi sembrava sconveniente, mi sarei sentito un impostore. Io sognavo uno yacht o una iole, fantasticavo di navigare solitario sulla mia nave. Come tutti noi… non voglio più storie.
Perché diavolo ho inserito questa parola nella lista? Perché mi piacciono i porti e il mare, forse? O perché mi piace molto come suona la parola? Non ne ho idea. E ora me la tengo. Non ho più voglia di altri cambiamenti nella mia vita. Rimane così. Porto. E bevo un lungo sorso di birra fresca.
Il gigantesco bastimento attracca all’ultimo porto prima del Capo di Buona Speranza… L’ultimo porto dei fantomatici navigatori sperduti durante il viaggio verso le nuove Indie. Solo che noi abbiamo fatto il percorso inverso, dall’Oceano Indiano. Abbiamo oltrepassato la punta dell’Africa… Cerco di immaginare che i navigatori siano venuti dall’Europa e che domani sulla terra, sulla terraferma, raggiungerò Cape of Good Hope.
Qui dovrebbe esserci l’ultimo scalo, l’ultimo rifugio. Definitivo. Capolinea.
Ma non voglio pensarci perché non voglio forzare il destino…
All’ora del tramonto la città con tutti i suoi edifici bianchi, che ora porta la maschera dell’arcobaleno, è accogliente e calda. Cercherò un posticino tranquillo e mi berrò una birra. O due. Una birra del posto, e guarderò nel vuoto. Senza fretta. Senza pensieri.
E’ il rifugio che desidero. Da solo. Sulla terra. Sulla terraferma.
Bentrovata, Città del Capo.